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Antonio Manzini, il creatore dell'indimenticabile vicequestore Schiavone, ci propone una storia serrata e sorprendente che si interroga sull'equilibrio tra legge e giustizia, e su ciò che faremmo pur di guarire le nostre ferite.
La corsa all'alba, la colazione al bar, poi nove ore di lavoro all'archivio del tribunale, una cena piena di silenzi e la luce spenta alle dieci: Carlo Cappai è l'incarnazione della metodicità, della solitudine e dell'ordinarietà. Nessuno sospetta che ai suoi occhi quel labirinto di scatole, schede e cartelle non sia affatto carta morta. Tutto il contrario: quei faldoni parlano, a volte gridano la loro richiesta di giustizia. Sono i casi in cui il tribunale ha fallito, e i colpevoli sono stati assolti "per non aver commesso il fatto" – spesso per mascherare i soliti imbrogli di potere. Walter Andretti è invece un giornalista precipitato dallo Sport, dove si trovava benissimo, alla Cronaca, dove si trova malissimo. Carlo Cappai è un Edmond Dantès, conte di Montecristo, costretto a una prigione un po’ diversa. Faretti alogeni e imposte serrate. L’archivio del tribunale penale, fatto di faldoni impolverati e denominati in lettere, un labirinto di cartelle che contengono casi per lo più irrisolti o risolti male. E Cappai li conosce tutti. Lui attardato da una vita ordinaria, fatta di una quotidianità logorante e ripetitiva, lavora di giorno e di notte tesse la sua tela. Un profondo senso di colpa che lo logora da quarant’anni, sembra sempre riportarlo indietro, alla morte della migliore amica Giada che lui vuole a tutti i costi vendicare. Senso di colpa aggravato dal coinvolgimento del padre, il giudice reo di aver prosciolto il responsabile dell’omicidio. Alla voce di Cappai se ne alterna un’altra, quella di Walter Andretti, il cronista sportivo trasferito suo malgrado alla cronaca nera che si ritrova improvvisamente invischiato in una rete di omicidi legati tra loro. Due personaggi all’apparenza distanti che si ritrovano insieme ad indagare. Da una parte Cappai solitario e arrabbiato, di poche parole e pochi cenni. Dall’altra Andretti che corre e si affanna odiando un lavoro che poi finisce per appassionarlo. Sullo sfondo Bologna, quella di fine anni ’70 e dei cortei sanguinosi dove perde la vita proprio Giada, ma anche quella, al limite del fantastico, dei nostri anni dove si sviluppa l’indagine. Antonio Manzini ci regala ancora una volta personaggi che meno cercano di piacere più affascinano. Irrispettosi e spesso avversi, divorati da una sete di giustizia alimentata da una parte dalla sete di vendetta, dall’altra da una passione nascente. Se Cappai è logorato dalle ingiustizie, Andretti da questa passione è rinvigorito. L’avversione a un lavoro che inizialmente rifiuta si trasforma in spinta all’azione, in uno scopo genuino che stupisce. Due personaggi opposti che si intrecciano nonostante la loro diversità. Il racconto di Cappai lento e disincantato sembra quello di un romanziere di lunga data; la voce nervosa di Andretti sotto forma di diario ci inonda di informazioni pensieri irriverenti. In questo alternarsi di voci, noi lettori ci prepariamo allo svelamento finale. Che sia tra gli scaffali dell’archivio di Cappai, o tra le considerazioni confuse nel diario di Andretti, dobbiamo evitare l’ennesimo errore di valutazione. Non è facile, ma c’è un motivo: non siamo bravi a cogliere i dettagli, non guardiamo con attenzione, sottovalutiamo dei particolari o delle virgole che invece sono essenziali e risolutivi.
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Maggio 2024
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