Il padre di Rosa, Pippo Romito, diceva sempre che la donna è come una campana: “si ’un ra scotuli ’un sona”.
In ciascuna famiglia è sempre presente una persona forte, in genere donna, che tiene ben salde le redini della sua piccola comunità, pronta ad offrire ai suoi familiari conforto e soluzione ai loro problemi. È quasi sempre una donna di poche parole ma di molti fatti, provata ma non vinta dalla vita, pronta ogni volta ad affrontare nuovi ostacoli e subire i molti cambiamenti che la vita pone sul suo cammino.
Di questa solida pasta era fatta Rosa Romito, coniugata Quaranta, nata in uno sperduto paesino dei monti siciliani. Rosa, rimasta orfana di madre troppo presto, era figlia di Pippo Romito, uomo ignorante, manesco e rude che, secondo una millenaria consuetudine, picchiava i due figli maschi, Cecco e Nino, e la femmina, perché questa era la legge degli uomini: padri che comandavano e figli costretti ad obbedire, fino a quando i maschi diventavano padri anche loro reiterando i comportamenti violenti e le femmine imparavano a comportarsi: un’esistenza dura, senza speranza, segnata da un genitore insensibile. Nella primavera del 1925 Rosa aveva conosciuto Sebastiano Quaranta e con lui era fuggita.
Dopo la “fuitina” si fecero sposare dal parroco di San Girolamo il 15 giugno 1925. Rosa si era trasferita così a San Remo a Castellazzo, dove Bastiano possedeva e coltivava le sue terre e dove per fortuna il padre non l’aveva più cercata. La cosa strana, ma bella e nuova a cui comunque dovette abituarsi, era che Sebastiano Quaranta non aveva padre, madre o fratelli, perciò Rosa aveva trovato l’unico uomo al mondo a non sapere come suonarle. Dopo la nascita dei figli, il primogenito Fernando, al quale sarebbe seguito Donato e poi l’amata figlia femmina Selma, Sebastiano si era stufato di fare il contadino e aveva deciso di realizzare un’idea nuova e una nuova attività. Ricavò un’osteria da un vecchio fienile a due piani, dove la gente poteva mangiare e bere. Così Rosa e suo marito avevano aperto la prima osteria di San Remo a Castellazzo.
L’autrice Aurora Tamigio, al suo esordio nel mondo letterario, lungo l’arco di sessant’anni di storia italiana, disegna una straordinaria saga familiare siciliana che ingloba tre generazioni di donne.
La “Mamaranna” Rosa, nume tutelare della famiglia, resa resistente dalle botte paterne, sopravvissuta agli anni durissimi della guerra senza marito e alla povertà più nera.
Selma, dolcissima e remissiva, andata sposa contro il volere della madre a Santi Maraviglia, detto Santidivetro a causa del diafano pallore del viso, che di meraviglioso aveva solo il cognome: il tipico imbecille arrogante con la convinzione di sapere tutto.
Le figlie di Selma: Patrizia la ribelle, la bella Lavinia e la più piccola, Marinella, che con difficoltà cercano il loro posto nel mondo. Tutte e tre rese forti dall’eredità di tutte quelle donne che prima di loro hanno lottato in un mondo in cui il potere era solo maschile.
“Lo sapete, vero, che il cognome delle donne è una cosa che non esiste. Portiamo sempre quello di un altro maschio.”