Siamo al riparo di una grotta sotterranea, che ospita un laghetto d’acqua dolce rischiarato da fioche luci artificiali. È molto freddo, sì, ma così terso da poter avvistare agilmente i pesci che lo affollano.
Sopra le nostre teste, una cupola di stalattiti protegge dall’alto lo specchio d’acqua. Ci immergiamo nella penombra per una veloce nuotata, tra fugaci riflessi turchesi.
Dove siamo? In un cenote. Visitarne uno è tra le esperienze più incredibili che si possano fare in Messico. Precisamente nello Yucatán e nel Quintana Roo, gli Stati messicani che compongono la penisola affacciata da un lato sul Golfo del Messico, dall’altro sul Mar dei Caraibi.
I cenotes sono veri spettacoli della natura: piccole piscine naturali a cielo aperto, chiuse fra alte pareti di roccia e fitta vegetazione, o nascoste nel sottosuolo, dentro grotte calcaree in cui filtra a malapena qualche raggio di sole.
Riserve idriche per i periodi di siccità, i cenotes erano “pozzi sacri” in cui gli antichi Maya comunicavano con gli Dei e compivano riti sacrificali.
Proprio qui, nel Sudest messicano, restano le tracce più tangibili della civiltà Maya, celebre per le straordinarie conoscenze astronomiche, l’accuratezza dei calcoli matematici e la raffinatezza delle sue architetture.
Piramidi, osservatori astronomici, campi per il gioco della pelota, eleganti palazzi ornati da pitture, incisioni di guerrieri, maschere e teste di serpente in pietra, sono lì a testimoniare lo splendore di una cultura millenaria, che gli storici collocano temporalmente tra il 2000 a.C. e il XVI secolo.
Non si può restare indifferenti di fronte al Castillo di Chichén Itzá, nello Yucatán, icona delle piramidi Maya. È il tempio dedicato a Kukulcán (il dio serpente piumato), una piramide a gradoni alta 24 metri, che durante gli equinozi diventa teatro di spettacolari giochi di luci: al sorgere e al calare del sole, si compone l’ombra di un serpente piumato intento a scendere la scalinata principale.
Da alcuni anni la salita al Castillo è preclusa ai turisti. Ma sperimentiamo l’“arrampicata” a Cobá, nel Quintana Roo, dove scaliamo la piramide di Nohoch Mul con l’aiuto di una corda.
Dall’alto dei suoi 42 metri, godiamo di una vista impareggiabile sull’immensa giungla messicana, terra di giaguari. Nel fitto della distesa smeraldo, vediamo far capolino qua e là le sommità di antiche costruzioni Maya.
Spettacolari anche le rovine di Tulum (Quintana Roo), immerse nel verde di prati e palme, ad un passo dall’oceano. Passeggiamo tra edifici possenti, con la compagnia di iguane e coati (procioni dalla lunga coda), sul promontorio che domina il Mar Caribe e le spiagge di borotalco che lo incorniciano.
Tra un sito archeologico e l’altro, incontriamo piccoli paesi raccolti intorno a strade sterrate, lontani anni luce dai frenetici centri turistici, custodi di sorrisi e sieste sull’amaca.
Come Cuncunul, una manciata di casupole a un piano, dalle tinte pastello, che orlano una via di polvere ocra. Set ideale per Speedy Gonzales.
Messico, si sa, vuol dire anche spiagge da cartolina. E ci sono davvero: nel Quintana Roo, da Puerto Morelos a Punta Allen si srotola la meravigliosa Riviera Maya.
La sua località più importante è Playa del Carmen, un concentrato di hotel e locali tra la Quinta Avenida e lunghissime spiagge bianche. Incantevoli, certo, ma caotiche.
Per sperimentare una natura più selvaggia e intatta, è meglio spingersi più a sud di Playa del Carmen, oltre Tulum. Eccoci in uno degli angoli più spettacolari del Messico, la biosfera di Sian Ka’an, Patrimonio Unesco dell’Umanità dal 1987.
Sian Ka’an è una riserva naturale fra oceano e laguna, che si estende su oltre mezzo milione di ettari, abitato da centinaia di specie di uccelli, pesci, mammiferi e rettili. Un ecosistema unico in cui si susseguono foreste tropicali, distese di sabbia, barriere coralline e canali di mangrovie.
Facciamo ingresso nella biosfera, arrivando da Tulum. Imbocchiamo una stradina in terra e sabbia molto dissestata, ideale per tenere alla larga frotte di turisti. Il percorso si snoda per oltre 40 km fino a Punta Allen, lungo una penisola che in certi tratti è larga appena 900 metri.
Un fitto palmeto borda la strada, ma di tanto in tanto lascia il posto a bassi cespugli, che fanno intravedere a destra la laguna, con acqua salmastra, a sinistra il mare caraibico.
Davanti a noi, Punta Allen, paesino di pescatori immerso nella natura più incontaminata. Da qui, a bordo di una piccola imbarcazione, partiamo per il viaggio nella laguna. Avvistiamo pellicani, fregate, aquile pescatrici e cormorani.
Proseguiamo verso il mare aperto, fra delfini, tartarughe e stelle marine. Un po’ di snorkeling sulla barriera corallina tra forti correnti e poi via verso una vicina piscina naturale. Un paradiso di acque basse e caldissime, che sfumano dal celeste al turchese, per fondersi con l’azzurro dell’orizzonte.
Non è un caso se in lingua Maya Sian Ka’an significhi “dove nasce il cielo”.
A cura di Francesca Vinai
Foto credits: Francesca Vinai