Le difficoltà diventano molte, a partire dal fatto che gli spazi pubblici sono di tutti, ma proprio per questo motivo, alla fine, non sono di nessuno.
L’incuria al loro interno spesso regna sovrana, e la riscrittura di tali spazi il più delle volte è una citazione (o uno scimmiottamento) di aree culturalmente lontane, importate ed acquisite senza contestualizzazione alcuna.
L’approccio dev’essere il più possibile olistico, mirante alla qualità della riqualificazione urbana, vista anche come motore nel processo di inclusione del crogiolo multietnico dei nostri paesi.
Il degrado nelle nostre città esiste, e possono essere essenzialmente tre le soluzioni al decadimento in cui versano alcune aree urbane: aspettare, subire o agire.
La prima è la soluzione più comoda, quella del non far niente, aspettando che la degenerazione si compia definitivamente, sprofondando in un cupo livello di emarginazione umana e sociale.
La seconda via si manifesta quando si subisce la trasformazione urbana calata dall’alto, imposta dall’amministrazione di turno, che il nostro quartiere lo ha visto solo durante qualche passeggiata elettorale.
La terza strada, quella che ci porterà a conoscere le mille sfaccettature del nostro territorio, carico di patrimonio urbano, naturale e umano, è quella che si affida alla “progettazione partecipata”.
Si tratta di una forma di intervento in grado di coinvolgere attivamente un vasto numero di protagonisti che, collaborando e integrandosi vicendevolmente, riescono ad aumentare la ricchezza delle soluzioni proposte.
In altre parole, significa attuare una connessione fisica e non solo virtuale tra quanto serve e quanto piace ad un dato territorio, tra quanto infonde sicurezza e quanto contribuisce a creare armonia e bellezza, tra quanto fa bene all’ambiente e quanto magari è anche buono da mangiare, il tutto realizzato in uno spazio conosciuto e familiare.
Così facendo si riescono a far emergere le meglio cose da un quartiere, da un isolato, da un’area verde, a vantaggio di tutta una comunità che in questo modo diventa anche più coesa.
Partecipare significa prendere parte a qualcosa: a un evento, a un obiettivo, a un momento di trasformazione della vita cittadina, occupando personalmente un posto ben preciso nell’organigramma totale.
E quando si parla di progettazione partecipata, si intende proprio un approccio logistico in grado di mettere in cooperazione tra loro diversi protagonisti di una data realtà sociale, dai semplici cittadini destinatari di una certa azione urbana che ne coglieranno i benefici diretti, fino agli amministratori locali, passando dagli specialisti che tale azione la dovranno realizzare.
Il trait d’union degli utenti coinvolti può essere dato dall’appartenenza allo stesso paese o al medesimo isolato, alla stessa città o macroarea urbana, oppure può essere motivato dal semplice fatto di condividere uguali interessi verso un determinato obiettivo in un ben preciso momento storico-culturale.
Si tratta di gente comune e organizzazioni che hanno tra di loro complesse relazioni orizzontali e verticali, portate a esprimersi attivamente su scelte legate al futuro del loro spazio quotidiano di vita, in un raro momento di collegamento diretto tra istituzioni e comunità.
La progettazione partecipata è un procedimento particolarmente gradito dalla gente, dato che oggi è molto sentito l’isolamento nelle realtà urbane. Questo approccio collaborativo, infatti, è capace di risvegliare il senso del vivere comune, reperibile in qualsiasi agglomerato abitato fino a pochi decenni fa, ma ora quasi estinto, grazie anche all’indifferenza alimentata dall’autosufficienza (vera o presunta) di ogni individuo.
Ritornando a comunicare tra persone con vite differenti ma conviventi sullo stesso territorio, si possono far riemergere esigenze e problematiche sopite, scatenando longevi rimedi reciproci.
È bello vedere come durante le varie fasi della progettazione possano nascere veri e propri legami tra destinatari, progettisti e decisori.
Seguendo il solito percorso procedurale, tali rapporti non sarebbero neanche lontanamente apparsi sulla scena, perché ogni attore si sarebbe impegnato solo nel proprio singolo campo, magari anche contrastando il lavoro altrui, senza degnare di attenzione l’intorno.
Con la progettazione partecipata i cittadini non subiscono più soluzioni calate dall’alto (e magari congetturate su calcoli matematici e non sulla realtà), ma si fanno compartecipi in prima persona delle scelte operate, diventandone co-responsabili.
Dall’altra parte i progettisti non perdono tempo a ipotizzare realtà dissonanti con il contesto, per poi farsele bloccare e contestare dai fruitori, e l’amministrazione vede il lavoro di progettazione scorrere molto più fluidamente sia come tempi sia come accettazione delle scelte, con notevole risparmio di risorse economiche.
Dato che il costruire e il vivere hanno radici in ambiti diversi, le voci della progettazione partecipata spaziano dall’energia al clima, dalla salvaguardia del suolo e del paesaggio all’urbanistica e all’architettura, dall’ambiente all’ecologia, dall’agricoltura al design, passando dalla sociologia e dai rapporti umani, in un riassunto concreto di pensieri, analisi, conoscenze, necessità estratte dallo svelarsi di più discipline.
In definitiva, rivedere e trasformare le aree urbane significa custodire e proteggere il pianeta, favorendone o ipotecandone il futuro per tutti. Il bello è che la presenza di abitanti e fruitori finali non è solo decorativa, ma è una presenza reale e non rituale, a cui fattivamente seguono decisioni nelle attività di progettazione.
Rispetto agli inizi, oggi lo stile della progettazione partecipata ha sfoltito la maggior parte dell’aspetto ideologico, andando a sostenere il vero coinvolgimento dei partecipanti, che con le loro proposte sono in grado di dare risposte a bisogni collettivi concreti.
In Italia le prime esperienze di progettazione partecipata hanno iniziato a diffondersi con l’emanazione di alcune normative nazionali, soprattutto la L. 285/97 e la L. 328/00, viste come primo stimolo per la cooperazione tra soggetti diversi.
Al cittadino chiamato a collaborare alla riqualificazione di un’area si palesano gli elementi identitari necessari allo sviluppo del “senso di appartenenza” ad un certo luogo. L’empatia progettuale che ne deriva fa espandere il senso civico individuale, arrivando a proteggere da ogni forma di degrado il contesto accudito.
Se le scelte di cambiamento urbano partono dal basso (bottom-up), le trasformazioni risultano più calzanti e appaganti, ma soprattutto più durature nel tempo, con meno spreco di denaro pubblico e molta più soddisfazione per tutti. In questo modo si innesca un processo democratico trascinante, con le persone che finalmente hanno la possibilità di mettersi in gioco, facendo qualcosa di utile e significativo per loro, per le generazioni a venire e per il contesto locale.
A cura di Francesca Landriani