Il 25 maggio 2015, la Sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano, in persona del giudice Dott. Claudio Marangoni, si è pronunciata all’esito di un giudizio cautelare ante causam instaurato da diverse associazioni, operatori e consorzi di taxi contro diverse società parte della compagine Uber. |
Tale applicazione svolge un servizio di intermediazione, mettendo in contatto la domanda e l'offerta di trasporto privato. A differenza dell'ordinario servizio Uber, gli autisti non sono però dei professionisti, ma dei privati. Anche i veicoli, anziché essere le lussuose auto scure, caratteristiche del servizio classico, sono spesso comuni utilitarie. Secondo i ricorrenti, il servizio denominato “Uber POP”, consentendo a comuni cittadini, privi di autorizzazione o licenza, di porre in essere servizi di trasporto a pagamento, costituirebbe una forma di concorrenza sleale nei confronti dei tassisti italiani. Pertanto, essi hanno chiesto al Tribunale di inibire in via cautelare ad Uber la prosecuzione della citata attività.
Al fine di verificare l’eventuale sussistenza dell’illecito concorrenziale, il giudice ha preliminarmente richiamato la normativa applicabile, ossia la Legge n. 21/1992 e gli articoli 82 e 86 del Codice della Strada. Ha quindi statuito che l’assetto normativo esistente, fondato sulla limitazione, tramite licenze, dell’accesso al mercato e su un regime amministrato di turnazione e tariffe, non contrasta con i principi di concorrenza costituzionali e comunitari. Il giudice ha evidenziato, in particolare, che la libera prestazione di servizi, nel campo dei trasporti, non è disciplinata dall’art. 56 del TFUE, bensì dal Titolo VI della terza parte del Trattato FUE, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia nella propria sentenza del 22 dicembre 2010, Yellow Cab Verkehrsbetrieb, C-338/09. Ha osservato, tuttavia, che le attività di taxi e NCC sono escluse dall’ambito di applicazione delle disposizioni finalizzate a liberalizzare i servizi di trasporto, adottate sul fondamento dell’articolo 91 del citato Titolo VI. In tal senso, viene indicato nell’ordinanza il chiaro disposto dell’art. 6 D.lgs 59/2010, di recepimento della direttiva 123/2006. Neppure, secondo il Tribunale, potrebbe sussistere una violazione della direttiva da parte del diritto interno, violazione comunque non prospettata dalle parti resistenti.
Operate le suddette premesse normative e giurisprudenziali, il Tribunale ha proceduto a valutare gli specifici requisiti richiesti per l’esercizio dell’azione di accertamento dell’illecito concorrenziale. Il primo requisito attiene all’esistenza di un rapporto di concorrenza, e quindi di interferenza, tra i servizi posti in essere rispettivamente dalle parti ricorrenti e resistenti. Il giudice ha riconosciuto la sussistenza di tale requisito, valorizzando in particolare, al punto 3, le analogie tra la richiesta di trasporto proposta mediante l’applicazione Uber POP e quella che passa attraverso i servizi di Radio Taxi, da anni diffuse in tutte le città. Il secondo requisito valutato dal giudice attiene alla remunerazione del servizio fornito dall’autista contattato tramite Uber POP. La strategia difensiva dei resistenti puntava a qualificare come mero rimborso spese quanto pagato dall’utente al fornitore del servizio di trasporto. Il Tribunale ha, però, rigettato tale prospettazione. Al contrario di quanto sostenuto da Uber, l’autista riceverebbe, infatti, una vera e propria remunerazione. Dirimente, in tal senso, sarebbe l’esistenza di un algoritmo noto come “surge”, il quale “determina un aumento dei prezzi in connessione di un prevedibile aumento della domanda”. Tale meccanismo risulta quindi, per sua natura, del tutto slegato dai costi effettivamente sostenuti dall’autista.
Nel prosieguo, il Tribunale si concentra sulla possibilità di assimilare Uber POP al servizio taxi. Al fine di negare tale natura al servizio da essi offerto, i resistenti hanno sostenuto che il sistema darebbe vita a una community chiusa, limitata ai passeggeri e ai guidatori aventi installato l’applicazione. Conseguentemente, il relativo trasporto dovrebbe considerarsi privato. Il Tribunale, nel rigettare tale tesi, ha osservato che il servizio è svolto, a pagamento, nell’interesse di persone diverse dall’intestatario della carta di circolazione, e che la sussistenza di una community non consente, a legislazione vigente, di esercitare in forma privata, senza titolo autorizzativo, una tale attività. Nel medesimo senso, il Tribunale ha ritenuto che l’offerta del servizio sia sostanzialmente indifferenziata, potendone usufruire chiunque previo scaricamento di una app liberamente disponibile, e non sia quindi circoscritta a uno specifico pubblico.
La successiva questione affrontata dal Tribunale è strettamente legata a quella della qualificazione da dare alla somma ricevuta dall’autista. Le società resistenti sostenevano che tale somma fosse un mero rimborso spese, così da far rientrare il servizio Uber POP all’interno della categoria, di non ancora precisa definizione normativa, del car pooling. A tal proposito occorre precisare che il Tribunale, per definire il servizio reso dall’autista che, avendo un “percorso personale da svolgere (...) chieda a terzi di condividere tale percorso al fine di dividere le relative spese”, utilizza i termini car sharing e ride sharing. Il primo dei due termini è qui citato in senso molto generico, in quanto esso identifica, propriamente, una forma particolare di noleggio del veicolo a tempo. L’ambito del secondo termine è invece sostanzialmente equivalente a quello di car pooling (BlaBlaCar, tra i più noti portali di condivisione di veicoli, distingue però il car pooling dal ride sharing a seconda della lunghezza - rispettivamente corta o lunga - del tragitto, nonché della sua abitualità o saltuarietà. Al di là della questione terminologica, il giudice esclude espressamente la riconducibilità di Uber POP a tali forme di mobilità condivisa, in quanto l’autista non ha un interesse proprio a raggiungere il luogo indicato dall’utente e “in assenza di alcuna richiesta, non darebbe luogo a tale spostamento”.
A questo punto della motivazione, il Tribunale ha affrontato una delle questioni più complesse del caso. Il fatto che il singolo autista, svolgendo il servizio senza licenza, ponga in essere una condotta vietata, non comporta, infatti, di per sè una responsabilità per concorrenza sleale del fornitore di un servizio di intermediazione. Il Tribunale, tuttavia, ha osservato che le società resistenti sono di fatto responsabili di aver generato il fenomeno, consentendo un incremento esponenziale del perimetro di attività, della clientela e del numero dei soggetti privi di licenza svolgenti servizi di trasporto analoghi a quello taxi. I gestori dell’applicazione, inoltre, promuovono attivamente e consapevolmente il reclutamento di conducenti tra i soggetti privi di licenza, provvedendo altresì a gestire il pagamento, fissare le tariffe e le variazioni delle stesse.
In virtù di tali attività il ruolo di Uber nella vicenda supererebbe ampiamente quello di mero intermediario, coinvolgendo invece “aspetti direttamente organizzativi e propulsivi” del servizio. Tanto che il giudice si è spinto a interrogarsi sul possibile inquadramento quali “vettori”, ai sensi degli articoli articoli 1678 e 1681 c.c., dei responsabili dell’applicazione.
Così ricollegata l’attività delle società resistenti a quella del singolo autista senza licenza, il Tribunale ha ritenuto integrato l’illecito concorrenziale ex art. 2598, comma 3, c.c.. Come specificato dal giudice, che ha richiamato la giurisprudenza della Cassazione sul punto, la violazione di norme pubblicistiche non integra necessariamente un atto di concorrenza sleale. Si verifica però un illecito concorrenziale qualora tale violazione determini, come nel caso di specie, un vantaggio concorrenziale rispetto agli altri operatori. Il Tribunale ha individuato tale vantaggio concorrenziale nella possibilità per gli autisti Uber POP di applicare tariffe più basse di quelle dei taxi, in ragione dei minori costi che deve sopportare un operatore sprovvisto di licenza. Ne consegue un indebito sviamento di clientela. Fra i maggiori costi di cui sopra, vengono in particolare enumerati quelli conseguenti all’univoca destinazione all’uso di terzi del veicolo, all’obbligo di installare il tassametro, alla maggior onerosità delle assicurazioni per uso professionale rispetto a quelle per uso proprio. Infine, vengono ricompresi i costi di associazione a servizi che garantiscano potenzialità di contatto con la clientela analoghe a quelle proprie dell’app Uber POP e all’installazione dei relativi apparati. Non viene invece considerato il prezzo di acquisto delle licenze. Tale esclusione appare corretta, considerato che le licenze vengono rilasciate dall’Amministrazione gratuitamente e che la loro compravendita è un fenomeno che si sviluppa esclusivamente su un mercato secondario. Ulteriore profilo di concorrenza sleale discenderebbe dal mancato rispetto degli obblighi di servizio pubblico incombenti sui tassisti.
Come evidenziato all’inizio della presente nota, l’ordinanza ha contenuto cautelare. L’accoglimento delle domande azionate dalle ricorrenti è quindi subordinato alla sussistenza del duplice requisito del fumus boni iuris e del periculum in mora. Quanto fin qui esposto integra, ad avviso del Tribunale, il requisito del fumus boni iuris Quanto alla sussitenza del periculum il Tribunale lo ha individuato nella progressiva e veloce diffusione dei servizi di Uber POP, che determina col passare del tempo un significativo incremento del pregiudizio per i ricorrenti. Tale pregiudizio risulterebbe tanto più attuale in considerazione dell’aumento dei flussi turistici in entrata, conseguente a EXPO 2015.
Per queste ragioni, il Tribunale, accertata la concorrenza sleale posta in essere, ex art. 2598, comma 3, c.c., dalle parti resistenti ha inibito alle stesse l’utilizzazione dell’app Uber POP sul territorio italiano e, più in generale, la prestazione di un servizio, comunque denominato, tale da organizzare e promuovere la prestazione di servizi di trasporto a pagamento, su itinerari e secondo orari di volta in volta stabiliti, da parte di soggetti privi di licenza o autorizzazione. Il Tribunale ha poi previsto una penale di Euro 20.000,00 per ogni giorno di ritardo nell’attuazione dell’inibitoria, a partire dal quindicesimo giorno successivo alla comunicazione dell’Ordinanza. Infine, è stata disposta la pubblicazione del dispositivo, per trenta giorni, sulla home page italiana del sito www.uber.com. Così esposti i contenuti più rilevanti del provvedimento - tralasciate, inter alia, alcune questioni soggettive e di legittimazione, qui di non primario interesse - si può tracciare una valutazione.
Nel complesso, la decisione del Tribunale delle Imprese di Milano risulta completa e solidamente argomentata. Il giudice, nell’applicare a un fenomeno nuovo e dirompente, quale Uber POP, la normativa esistente, ha mostrato una conoscenza non superficiale del tema della mobilità condivisa. Inoltre, la decisione appare fondata su una puntuale disamina dei più rilevanti elementi di fatto. Si pensi, in particolare, all’indagine sull’algoritmo di pricing ai fini della qualificazione come retribuzione della somma percepita dall’autista.
Ciò premesso, si possono formulare due osservazioni critiche. Prima di tutto, il Tribunale, nel rigettare la tesi secondo la quale Uber costituirebbe una forma di ride sharing/car pooling, si è basato sull’assenza, in capo all’autista, di un interesse proprio a recarsi presso la destinazione del viaggio. L’osservazione è, in parte, corretta, ma necessita di una precisazione, invero non dirimente per il caso esaminato dal Tribunale. Certamente, laddove difetti totalmente un interesse proprio dell’autista a compiere il viaggio, non vi è car pooling. D’altra parte, non è infrequente che diversi individui condividano un veicolo per compiere un tragitto solo in parte coincidente. In tal caso è possibile che l’autista allunghi il proprio percorso al fine di caricare o scaricare uno dei propri compagni di viaggio. Rispetto a questa parte del tragitto, l’autista non ha un interesse proprio, se non quello di consentire una maggiore occupazione del veicolo e quindi una più ampia suddivisione dei costi. Dovremmo forse negare, in queste situazioni, la possibilità di operare trasporti in car pooling? La risposta non può che essere negativa. Una tale opzione interpretativa avrebbe, infatti, conseguenze sociali contrarie all’interesse pubblico, che è quello di aumentare l’occupazione dei veicoli per decongestionare le strade. Che questa sia la direzione verso la quale si stanno indirizzando i pubblici poteri è confermato dalla diffusione in Europa, negli ultimi anni, di norme e iniziative favorevoli al car pooling. La promozione di questa modalità di trasporto condivisa è infatti funzionale al raggiungimento degli obbiettivi di Europa 2020. Indubbiamente, il criterio dell’esistenza di un interesse proprio può essere preso in considerazione per valutare se un trasporto sia qualificabile come car pooling. Esso deve essere però riferito non alla destinazione concordata, ma al tragitto complessivamente considerato. Inoltre, deve ammettersi che il conducente possa compiere una parte del tragitto nell’esclusivo interesse altrui. Il discrimine andrebbe allora cercato nella prevalenza o meno dell’interesse proprio sull’interesse esclusivamente altrui. È comunque possibile, e forse preferibile, distinguere il car pooling sulla base di un diverso criterio. Il Tribunale ha accertato, in distinti punti della motivazione, che l’autista di Uber POP riceve una remunerazione (e non un mero rimborso spese) e che il relativo servizio non è assimilabile al car pooling, senza far espressamente discendere il secondo accertamento dal primo. La Corte di Cassazione francese, invece, ha valorizzato proprio la natura della somma corrisposta al conducente per distinguere il car pooling dall’abusiva fornitura di servizi di trasporto . In particolare, secondo la suprema Corte transalpina, la somma corrisposta all'autista non può essere maggiore della quota, riferibile agli altri passeggeri, dei costi sostenuti, comprensivi, tra l'altro, delle spese di benzina, dei pedaggi, dell'assicurazione e dell'usura del mezzo.
Infine, per quanto riguarda il dispositivo dell’ordinanza del Tribunale di Milano, è opportuna una precisazione circa l’inibitoria dell’uso sul territorio nazionale dell’app Uber POP. La statuizione, se interpretata letteralmente, pare precludere in via assoluta la continuazione dell’uso dell’applicazione. Trattandosi però di un applicativo telematico, le società resistenti potrebbero modificarne, senza particolari difficoltà, l’algoritmo al fine di renderlo compatibile con i limiti del car pooling. Non vi sarebbe, in tal caso, ragione di precludere alle stesse la possibilità di continuare a usare, per tale nuovo servizio conforme a normativa, il preesistente nome di Uber POP.
Sicuramente, la vicenda non è ancora arrivata alla sua fine. Uber pare intenzionata a procedere nella battaglia legale e, parallelamente, in quella politica, mirante alla modifica della normativa che regola il settore dei servizi di trasporto pubblico non di linea (taxi e ncc). Non vi è dubbio che quest’ultima mostri crescenti profili di obsolescenza, con norme che non tengono il passo rispetto alle evoluzioni tecnologiche diffusesi negli ultimi vent’anni. Inoltre, manca ancora nell’ordinamento una definizione normativa di car pooling, attualmente rimessa agli interpreti. Per Uber, risulta probabilmente più opportuno concentrarsi sull’attività di lobbying in sede legislativa, anche al fine di sostenere una maggior liberalizzazione del settore. Al contrario, le possibilità di ottenere una vittoria nella sede giurisdizionale di merito risultano, alla luce della legislazione vigente, piuttosto esigue.
A cura di Gabriele Fiorentini