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Terremoto Covid: proteggere i più deboli

30/10/2020

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Bisogna smettere di usar il lockdown come metodo di controllo principale e sviluppare sistemi migliori per contrastare la pandemia.
Il decreto del 18 ottobre ha, al momento in cui scriviamo, scongiurato il pericolo di un nuovo lockdown: una misura temuta dal mondo economico che, nelle analisi di  molti esperti, potrebbe forse salvare il Paese sul fronte sanitario ma che rappresenterebbe un vero disastro per tutto il comparto economico e produttivo. “Il lockdown generalizzato non serve” commenta Simona Vietina, parlamentare di Forza Italia e sindaco di Tredozio, comune appenninico in provincia di Forlì-Cesena. Lo afferma anche David Nabarro, inviato speciale della dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Covid, che in una recente intervista ha sottolineato i danni causati da questa misura: danni ai Paesi che vivono di turismo, spesso molto poveri come le aree caraibiche o quelle del Pacifico, incremento dei livelli di povertà e dei casi di malnutrizione.

​L’appello è stato chiaro: smettete di usare il lockdown come metodo di controllo principale, sviluppate sistemi migliori per farlo, lavoriamo insieme e impara gli uni dagli altri, ma ricordate: i blocchi hanno solo una conseguenza che non devi mai sminuire , e questo sta rendendo i poveri molto più poveri”.

A essere più colpite dagli effetti del lockdown, nel nostro Paese, sono specifiche aree produttive e territori: le aree periferiche, le zone montane stanno pagando un prezzo altissimo che si innesta in difficoltà pregresse.

“Turismo, ristorazione, artigianato, commercio: queste attività sono strettamente connesse allo sviluppo sostenibile per i territori. Ecco perché la X Commissione per le Attività Produttive sta lavorando per la riattivazione delle reti economico-produttive locali fortemente provate dal Covid e non solo. In questo contesto ho affermato con forza la necessità di un passo più ed è per questo che nel parere della Commissione è stato aggiunto un passaggio che ritengo fondamentale, ossia l’obbligo di prevedere misure volte a contrastare la desertificazione commerciale dei centri storici in particolare nelle località minori. I paesi e i borghi, in particolare quelli montani, sono strettamente legati alle proprie attività produttive e commerciali: sono punti di riferimento per la popolazione, fonte di occupazione che argina lo spopolamento. Si tratta di un parere vincolante che va nella direzione giusta: occorre tutelarle con tutti gli strumenti in nostro possesso queste realtà attraverso misure per la riqualificazione, l’innovazione e il contrasto all’abusivismo, serve un piano di defiscalizzazione per le aree interne che nell’ultimo decennio hanno segnato un elevato tasso di spopolamento, privilegiando i territori colpiti da calamità per i quali è stato dichiarato lo stato di emergenza”. 

In questo quadro complesso, si innesta il problema sanitario: nel momento più grave della crisi sanitaria, la scorsa primavera, tutte le risorse del Paese erano focalizzate nella lotta contro il Covid ma questo ha causato l’aggravamento di un problema ben noto per il sistema sanitario nazionale, quello delle liste di attesa. 

Dagli ambiti più gravi a quelli meno urgenti, la sanità italiana è stata messa necessariamente“ in pausa” per concentrare sforzi, risorse ed energie nella battaglia contro il Coronavirus, ma questo ha avuto un prezzo: “i mesi del lockdown, quelli facilmente identificabili come i più duri della prima fase della pandemia, hanno richiesto un tributo pesantissimo al Paese. Un tributo in termini di vite umane mietute direttamente dal virus ma anche tante, meno “rumorose” e sicuramente meno mediatizzate che sono state colpite da patologie improvvise e fatali o da malattie che, “trascurate” (le virgolette sono d’obbligo) a causa dell’emergenza covid si sono aggravate fino alle estreme conseguenze”. 

La paura del contagio ha causato i danni peggiori: “Tante persone, per timore di contrarre una malattia che fra febbraio e aprile sembrava non lasciare scampo, non si sono recate al pronto soccorso di fronte ai sintomi di un problema emergenze: parliamo di persone che, in tempi normali, sarebbero corse a effettuare controlli. 

A questi va aggiunto un vero esercito di malati “messi in pausa” dalle contingenze: visite specialistiche slittate sine die, in attesa che l’emergenza passasse rendendo gestibile ricominciare a effettuare esami e controlli, esami clinici sospesi (penso ai “breath test” per la verifica delle intolleranze, ad esempio, che ancora oggi sono sospesi in tutto il territorio regionale). 

Ora il Paese vive una fase post-emergenziale, sebbene lo spauracchio di una nuova impennata esponenziale dei casi sia sempre davanti agli occhi: il sistema sanitario ha retto l’urto come meglio ha potuto. In alcuni casi meglio, in altri peggio o molto peggio, ma sempre mettendo in campo un titanico sforza da parte di medici, infermieri, operatori sanitari per gestire uno tsunami a cui nessuno poteva dirsi preparato. Oggi quelle stesse persone stanno facendo un nuovo sforzo: fare ripartire tutto il resto della “macchina sanitaria”: quel complesso meccanismo fatto di esami e visite specialistiche, interventi “non urgenti” ma necessari, che ha accumulato liste d’attesa di dimensioni epocali. 

E già prima la situazione, su questo fronte, non poteva certo dirsi rosea, anzi. Serve subito un Piano nazionale di “rientro” sulle liste di attesa e una nuova Governance del farmaco e dei dispositivi per la sostenibilità del SSN, per definire strategie di azioni, risorse economiche e tempistiche razionali. La salute di ogni cittadino è indiscutibilmente il bene più prezioso che un Paese civile deve tutelare con tutte le proprie forze: dopo anni di politiche predatorie sulla sanità (i cui effetti si sono rivelati in tutta la loro devastante portata proprio durante la fase più difficile della pandemia) ora è necessaria una svolta decisa.

Non basta definire eroi i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari, per risolvere il problema: lo sono e lo sono stati ma dobbiamo metterli in condizione di portare avanti la propria attività nel modo migliore”. Il Paese deve investire nel proprio futuro anche partendo dalla sanità: “Più formazione, più strutture, più posti letto” è la formula di Vietina.

“Ma anche una grande rivoluzione che permetta di intensificare il numero e la qualità (già in effetti molto alta) dei medici che concludono il percorso canonico di studi, un ampliamento dei percorsi di specializzazione, oggi vero “collo di bottiglia” che impedisce a tanti bravi laureati in medicina di completare la propria formazione e di diventare risorse cruciali per il Servizio Sanitario nazionale. Forse, in questa fase, potrebbe essere opportuno rimuovere i legacci dell’accesso a numero chiuso e, garantendo disponibilità di strutture e di risorse agli Atenei, per almeno un ciclo di studi formare una classe medica più numerosa e pronta a gestire le emergenze che potremo trovarci ad affrontare nei prossimi anni. 

Dobbiamo, questa è la sfida che come parlamentare sento di abbracciare in pieno, lavorare per una sanità nazionale forte in ogni Regione. Come ben sappiamo, una catena è tanto forte quanto lo è il proprio anello più debole. Ecco la sfida! Fare sì che gli anelli più deboli, i territori più sfortunati, diventino luoghi di eccellenza e medicina di alto livello: in questo modo tutto il Sistema Sanitario Nazionale ne trarrà vantaggio.

E con esso tutto il Paese nel suo complesso. Si tratta di una sfida ambiziosa, l’ennesima che il nostro Paese si trova a fronteggiare sulle macerie lasciate dal passaggio della pandemia. Eppure è una battaglia che non possiamo perdere: va affrontata con coraggio e con i giusti strumenti.” 

A cura dell’On. Simona Vietina.
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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