Ogni anno ogni imprenditore deve produrre una mole fantozziana di documentazione solo per guadagnarsi il diritto a ritagliare il tempo necessario a lavorare per sé e per i suoi dipendenti.
Ogni anno si pagano anticipi assurdi su guadagni che nessuno può prevedere, si calcolano scorpori e ci si appella alla creatività dei commercialisti per provare ad aprire una breccia in un muro burocratico fiscale che ogni giorno mortifica le speranze e le aspirazioni di migliaia di persone.
Uno scenario ancora più inquietante se teniamo conto come dalle ultime statistiche emerga che in Italia i contenziosi tra cittadini e Stato in materia fiscale si risolvano per il 40% a favore del cittadino: in quasi un caso su due lo Stato spreme più di quanto previsto per Legge. Mette i brividi proiettare questo dato su tutti i quei casi di cui non verremo mai a conoscenza e che probabilmente sono la maggioranza, in cui il contribuente rassegnato non apre nemmeno il contenzioso, ma si limita a pagare quanto richiesto.
Inevitabile finché ci si affida a quello strumento sovietico che risponde al nome di “studio di settore”. Funziona così: c’è un software chiamato GE.RI.CO che elaborando una serie di dati inseriti da Agenzia delle Entrate, Ministero dell’Economia e associazioni di categoria, determina su base statistica e probabilistica quali sono i parametri di ricavo presumibili per attività commerciali di servizi, commercio, manifatture e professionisti. Da questo tavolo di professionisti che non hanno, bontà loro, probabilmente mai visto un macchinario da vicino, viene decisa l’aliquota di tassazione, senza minimamente prendere in considerazione l’effettivo ricavo delle singole realtà interessate, né quella fluttuazione imprevedibile delle entrate che ogni piccolo imprenditore e professionista sa bene essere la norma e non certo l’eccezione soprattutto in anni di oscillazioni frenetiche come questi.
Ma il software non ammette la prova di realtà, così ogni anno in Italia per centinaia di professionisti e imprenditori che non risultano congrui e coerenti, scatta l’accertamento induttivo perché dimostrino l'esistenza di guadagni che non hanno mai avuto con la correlata enciclopedia di esperienze tra il tragico e il grottesco che ho collezionato in questi anni incontrando le persone nelle piazze d'Italia: imprenditori che fermano la produzione una settimana e impegnano i dipendenti in estenuanti ricerche d'archivio, fornai che devono dimostrare la quantità di pane prodotta in un anno; commercianti che metro alla mano sono tenuti a dimostrare la lunghezza degli scaffali; baristi che passano ore a inventariare le tartine degli aperitivi per rendere conto al fisco dei ricavi, con lo spauracchio di sbagliare anche un solo codice di esclusione e finire alla gogna alla stessa stregua degli evasori totali.
A proposito, qualcuno si è mai chiesto perché tutto questo spiegamento di forze che semina angoscia in tutte le caselle delle lettere d' Italia non riesce ad erodere i 90 miliardi annui attorno a cui viene valutata ancora oggi l’evasione fiscale?
La colpa è degli idraulici che non chiedono la fattura, degli studenti che fanno ripetizioni in nero alle superiori, degli imprenditori che intestano l'auto all'azienda o forse è colpa della lobby dei panettieri, dei parrucchieri, degli psicologi che si fanno pagare in contanti?
Io penso che sia proprio questo apparato poliziesco ad essere costruito su misura per colpire i pesci piccoli e risparmiare, se non favorire, quelli grossi. Non mi spiegherei altrimenti il caso dei 98 miliardi di euro di evasione totale che, secondo un inchiesta del 2007 della Corte dei Conti, avrebbe riguardato dieci aziende concessionarie delle slot machine in Italia accusate di non aver collegato gli apparecchi al sistema informatico di controllo dei Monopoli, gestito dalla Sogei, nei tre anni precedenti.
La prima sentenza, arrivata solo nel 2012, ha ridimensionato di molto l’importo con la sanzione ridotta a 2,5 miliardi di euro. Da 98 miliardi a 2 e nel 2013 con il condono di Letta le società coinvolte se la sono cavata liquidando solo il 30% del dovuto: da 98 miliardi a 430 milioni di euro, mentre nello stesso arco di tempo in Italia i Governi “tecnici” adottavano la politica delle lacrime e sangue, della Fornero, delle tasse, della distruzione sistematica della piccola media impresa con i livelli di saccheggio più alti della nostra storia recente.
È per uscire da quest’incubo che come Lega abbiamo presentato l’unica misura che può rivoluzionare il sistema fiscale italiano: la flat tax. Aliquota unica universale al 15% sul reddito.
Basta tasse di proprietà, basta calcoli astrusi, studi di settore, GERICO, Grandi Fratelli: conta solo il reddito. Una volta all’anno si calcolano i redditi, si prende la calcolatrice, si divide per 15 e non si ha più niente da temere dallo Stato.
Non è un’invenzione di Salvini, ma un modello teorizzato dal professore di Stanford Alvin Rabushka e a cui recentemente il mio consigliere economico Armando Siri ha dedicato un volume ad hoc: “Flat tax, la rivoluzione fiscale in Italia è possibile”.
Parola d’ordine: semplificazione. Flat Tax vuol dire segnare un “punto zero” del fisco con caratteristiche di shock positivo che non si riscontrerebbero in nessuna modifica parziale del metodo al momento in vigore in Italia. Peraltro se, come proponiamo, all’ aliquota del 15% aggreghiamo un sistema di deduzioni fisse su base famigliare che ne garantisca la progressività, coerentemente con quanto disposto dalla Costituzione Italiana, gli effetti positivi si riscontrerebbero immediatamente in un maggior potere di spesa per le famiglie.
L’Italia esce davvero dal tunnel della crisi solo se lo Stato torna al servizio dei cittadini, dei piccoli imprenditori, di quelli che Gianfranco Miglio chiamava i produttori e contrapponeva ai parassiti: meno tasse vuol dire più soldi in tasca, più fiducia, più consumi, più produzione, più lavoro. E quindi meno evasione, con buona pace dell’Agenzia delle Entrate.
A cura di Matteo Salvini