Ne accadono di tutti i colori in viaggio, ma soprattutto se ne assaggiano di tutti i sapori.
Mi è capitato così di trovarmi in Kenya 12 giorni a novembre, in quella parte rurale ancora sconosciuta al turismo in cui le comunità indigene vivono - intonse dal “peccato” occidentale - una vita fatta di felicità delle piccole cose. Non manca mai il sorriso sulla bocca di nessuno dai zero ai 99 anni, neppure se affaticati al lavoro sotto il sole cocente dei campi, se senza scarpe, vestiti e soldi nel mezzo del fango. Un sorriso lo hanno sempre, per loro e per gli altri. Si potrebbero scrivere innumerevoli libri sulle vite di quelle comunità ignote al mondo che sussistono con le proprie produzioni, ma in questo ambito si vuol parlare della loro gastronomia, del vivere il pasto quotidiano e festivo.
Risalire ad una vera cucina kenyota non è semplice.
Per ignoranza si può pensare che il cibo sia qui considerato come un insapore, necessario, semplice fabbisogno biologico quotidiano. Nulla di più sbagliato: le pietanze sono sì spesso ripetute, con sapori semplici poco marcati, soprattutto nella routine giornaliera, ma hanno sempre un valore.
La tavola imbandita delle feste è strutturata a modo banchetto/self service e si ripete di comunità in comunità nella scelta e nei sapori delle pietanze, semplici, in cui le verdure e i prodotti della terra la fanno da padrone. Quindi ricchi piatti di carni locali (manzo, pollo e montone in prevalenza) in stufati o nyama choma (carne arrosto) e legumi. Riso, tuberi e mais non mancano mai, in varie forme tra cui l’ugali (una sorta di polenta ben compatta di mais bianco), così come il coriandolo e il sukuma wiki, una verdura a foglia della famiglia del cavolo, stufata e ripassata sul fuoco con cipolla (colonna portante di ogni preparazione kenyota) e pomodoro. Miglio e sorgo compongono i porridge digestivi del fine pasto, mentre il chai tea (tè nero con latte) si consuma dal mattino alla sera. Non un singolo piatto identifica il Kenya quanto la composizione della tavola in sé, nella quale non possono mancare gli elementi sopracitati: vitamine, minerali e proteine come elementi centrali e carboidrati vari ed eventuali in accompagnamento. Sapori equilibrati e delicati in pietanze quasi sempre salutari e ben nutrienti che utilizzano solo i prodotti locali e le spezie native. Le comunità sono tantissime ed ognuna di loro conserva il suo unico patrimonio culinario. Visitandone svariate e assaggiando circa gli stessi menù di festa notte e giorno, una pietanza mi ha particolarmente conquistata: il chapati.
Personalmente ho impiegato qualche giorno a capire questa preparazione apparentemente anonima e semplice. Ho dovuto assaggiarne una buona decina per realizzare che quello che mangiavo non era solo un disco di pane, bensì una pietanza che nella maglia glutinica di mix di grano intrappola tante personalità, diventando emblema di appartenenza ad una comunità piuttosto che a un'altra e simbolo di una identità culturale contaminata.
Il chapati è un sempreverde nella cucina kenyota: come il riso bollito si abbina, morbido e gustoso, a tutti i piatti del mangiare quotidiano e festivo, dalle insalate di cavolo agli stufati di carne o legumi tipici dei ritrovi conviviali, a cui serve anche da scarpetta.
In origine è il pane tradizionale indiano ampliamente consumato nell’India del Nord e nell’Africa orientale. La caratteristica di questo pane è la sua forma piatta e tonda, simile ad una piadina. Non contiene lievito, ma solo farina, acqua e sale. È bene tener presente che la cucina kenyota ha subito una fortissima influenza indiana nel XX secolo per motivi economico-coloniali. Negli anni Venti del Novecento circa 25.000 indiani furono portati dal governo britannico in Africa Orientale per esser impiegati come manodopera nella costruzione del progetto di linea ferroviaria di collegamento tra Kenya e Uganda. Con il passare degli anni molti indiani si insediarono e rimasero in Kenya, facilitati dalle politiche di dominazione britannica familiari più a loro che alle popolazioni native africane. L’integrazione indiana ha inesorabilmente mutato e ridefinito i sapori del Paese rendendo piatti come il chapati e i samosas (tradizionale antipasto indiano di pasta fritta ripiena) di tradizione kenyota al 100%. La storia di emulsione culturale intrinseca al chapati del Kenya è di per se motivo di curiosità, ma lo è ancora di più la sua espressione effettiva, il suo essere pane azzimo, che ne fa una vera e propria forma d’arte: non esistono chapati uguali e neppure simili, servono ingredienti personali e segreti per prepararlo con una particolare influenza sentimentale di chi lo prepara. Uno su tutti mi ha fatta innamorare e la sua ricetta voglio qui riportare.
Si tratta del chapati di una signora che emanava serenità e buonumore: ‘hakuna matata’ è la sua filosofia, significa nessun problema, ovvero vivi senza stress. Lei è stata la Mama (la signora che si è presa cura del nostro gruppo) per un giorno intero nella foresta di Marioshoni, nella visita alla comunità di produttori di miele Ogiek. La sua preparazione era da sogno, confortante come un bacio della mamma. Dopo averlo assaggiato, mangiato ed averne fatto quasi indigestione a pranzo ho deciso di seguirne la preparazione la sera stessa. Gli ingredienti sono semplici, non esistono dosi, solo occhio e tatto: si parte da acqua tiepida, sale e zucchero, si aggiunge dell’olio (di semi) e si amalgama un poco. Si mette poi la farina mista integrale e bianca e si lavora fino ad ottenere un impasto compatto e asciutto il giusto, da dividere in palline grandi come palle da golf e stendere poi con mattarello e olio di gomito. La cottura delle sfoglie di ‘pane’ avviene su una padella di ferro chiamata tawa, che diffonde il calore in modo uniforme, ben irrorata di olio. A rendere quel pane azzimo così speciale era l’atmosfera del piccolo cucinotto rustico in cui tra fumi e profumi si rideva a crepapelle e si ballava. Ciascun chapati assorbiva, assieme all’olio, il buonumore del luogo, trasformandosi in una fiaba saporita da mille e una notte. Ogni morso racchiude una storia di contaminazione culturale, di comunità e persone, unica e incantevole.
Insegna Mama Chapati: qualunque sia il tuo problema, con un buon chapati puoi “mangiarlo via”.
A cura di Greta Contardo