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Sing Street, da vedere!

20/1/2017

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La musica come viaggio d’iniziazione, una commedia romantica e sofisticata che si pone senza dubbio tra i film più belli del 2016.
Ritorno dietro la macchina da presa da parte di John Carney, l’ottimo regista di “Once” e “Tutto Può Cambiare” (se non li conoscete molto male, consiglio di recuperare subito, soprattutto il primo). Lo scenario è sempre l’Irlanda (come potrebbe essere altrimenti da un puro figlio della terra dei folletti?), i ruggenti anni Ottanta, che in realtà per l’Irlanda tanto ruggenti non furono tra tensioni sociali e crisi lavorativa. Il film ha per protagonista Conor, “sfigatello” figlio di una tipica e numerosa famiglia cattolico-cristiana, che per tagliare i costi viene spostato di scuola, a favore di un istituto più rigido, tra bullismo e preti dispotici. Ad illuminare le sue giornate l’incontro con una ragazza che tutte le mattine sta sulle scale davanti all’ingresso della scuola. Conor in un impeto di orgoglio va a parlarle, scoprendo che la ragazza fa la modella e le chiede se è interessata ad essere la protagonista del nuovo video della sua band. Piccolo problema, Conor non ha né una band, né conoscenze musicali. Se per l’educazione musicale entra in gioco il fratello maggiore e la sua immaginifica collezione di vinili, per formare la band sfrutterà il suo unico amico nella scuola che diventerà il manager della band. L’accozzaglia di persone che ne esce fuori è quantomeno bizzarra, ma i risultati sono incoraggianti e Conor sboccia come sbocciano le sue canzoni. Nel frattempo la modella, Rafina, inizia a diventare una fan della band nonché la protagonista di tutte le canzoni. E stop, non voglio raccontarvi troppo d’altro. Voglio però dirvi che secondo me (musicista e mancata rockstar) questo film è un piccolo capolavoro che non dovete lasciarvi sfuggire. Racchiude tutto ciò che di magico e di bello aveva la musica (quella vera, non la robaccia tipo Rovazzi o Fedez), con un messaggio da esprimere, una passione vera e spontanea. Il film spesso emoziona, ci si trova al cinema con i sorrisoni e gli occhi un po’ lucidi, ricordando com’erano belle le giornate quando le uniche preoccupazioni erano legate alla musica. E la trama è di una banalità epica se vogliamo: un ragazzo mette su una band per conquistare una ragazza. Eppure è così smaccatamente perfetta, non è un film sugli Ottanta, è in pieno anima e corpo degli anni Ottanta. Il film scivola via perfetto, e questo non è dato dalla scelta dei brani, non è la loro esecuzione e non è nemmeno il montaggio delle parti musicate, è proprio come tutta la storia venga migliorata dal fatto che nella vita dei protagonisti esiste la musica, come se sotto sotto la vera risposta a tutto non siano i sentimenti ma le note. Questa piccola utopia che striscia sottile tra le scene porta un livello di ottimismo, anche nei momenti più tragici. La musica come rivoluzione, come rivalsa e come un qualcosa che unisce. E Carney è bravissimo perché il film è onesto, non è un’operazione commerciale per usare il filone hipster e modaiolo o una mera questione di estetica. Il messaggio del film è uno solo: la potenza dell’idea che mettersi in prima linea a fare musica, fare video, creare qualcosa anche di pessimo è un atto dal quale non si torna più indietro, una droga che cambia tutta la visione della vita, i rapporti e la maniera in cui ci si confronta con chi vuole impedirlo. Dettaglio che arricchisce ulteriormente il tutto: le canzoni sono originali e sono davvero suonate (e cantate) dalla band in scena. Per me uno dei film più belli del 2016, senza se e senza ma.

A cura di Federico Rosa
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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