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Siamo nell’epoca della formazione permanente

1/8/2020

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Dieci anni fa chi avrebbe puntato ad una carriera nei social media? Oggi i giovani  cambiano mille lavori e sono costretti a riprogrammarsi. 
La tecnologia sta provocando un mutamento storico nel mondo del lavoro, e quindi è naturale aspettarsi che i nostri figli sceglieranno mestieri che ancora non esistono. Il 65% dei ragazzi che sono oggi a scuola, infatti, farà un mestiere che non è stato ancora inventato.

Per fare un esempio banale, dieci anni fa chi avrebbe puntato ad una carriera nei social media tipo Facebook o Twitter? A tutto ciò adesso si aggiungono i robot che portano via i posti di lavoro agli esseri umani, e la preoccupazione diventa panico.

I guru ci garantiscono che la tecnologia distrugge vecchi lavori ma ne crea nuovi. Gli scettici osservano che la distruzione di posti di lavoro è certa, mentre la creazione di impieghi sostitutivi è un atto di fede, e comunque tra i due fenomeni c’è una sfasatura temporale intollerabile per chi ci casca dentro.

Il Financial Times, bibbia dell’economia globale, scrive che entro dieci o vent’anni, cinque settori economici saranno schiantati dalla tecnologia: spariranno, o quasi, le agenzie di viaggio (e fin qui la profezia è facile) ma anche i produttori di componenti industriali (un comparto essenziale dell’economia italiana), le officine auto, i venditori di polizze Rc e (addirittura) i consulenti finanziari. Un presidio di operatori umani resterà in ciascuno di questi settori economici ma ridotto all’osso. Pensiamo alle nuove casse nei supermercati, la nota “cassa amica”, formata da 4 postazioni con 1 sola commessa.

Pensiamo al mondo della musica, molti cantanti prima avevano bisogno della casa discografica per vendere il brano, oggi molti utilizzano le piattaforme come Spotify. Oggi anche con un concerto si guadagna meno di una diretta live fatta con il cellulare.

Esiste il fenomeno dello Showrooming, l’uso dei negozi come camerini di prova da parte di chi poi acquista online. A questo si aggiungono i Negozi Virtuali, che offrono la possibilità di provare i capi online: attraverso internet i clienti possono creare un modello virtuale di sé stessi, fornendo informazioni su taglia, sesso età e giro di petto, vita e fianchi. Con il mouse il cliente può anche visualizzare l’effetto da diverse angolazioni. Riusciranno a tenere i battenti aperti i negozi che vendono articoli di lusso.Il grosso del commercio tradizionale è destinato a contrarsi, specie quando la nuova generazione più abituata agli acquisti online diventerà adulta.

Per questi motivi, ritengo che il Reddito Di Cittadinanza (da questo momento RDC) sia l’unico strumento per supportare i cittadini; è vero che è stato pensato soprattutto per i più poveri, i più fragili, i cosiddetti Neet, “not in education, employment or training”, cioè quelli che non studiano, non lavorano, e il lavoro neanche lo cercano perché scoraggiati.

L’automazione distrugge una buona parte del lavoro; mentre prima una persona studiava per fare l’avvocato e quello faceva per il resto della vita, oggi i giovani cambiano mille lavori, sono costretti a riprogrammarsi perché alcuni lavori semplicemente smettono di esistere: è l’epoca dell’educazione permanente, del lavoro a cicli prima lavori, poi ti fermi, studi nuovamente e, infine, ti rimetti a fare un altro lavoro.

In questo contesto, servono politiche che sostengano chi non è ricco e non ha accumulato abbastanza anche fra un periodo di lavoro e un altro, in modo da dargli una mano a riprogrammarsi. È una possibilità che riguarda tutti, non solo i lavori più semplici. È un rischio anche per i borghesi, non solo per i poveri.

È qui il punto. Mentre i nostri critici, gente lontana dai bisogni della gente dice il RDC è concepito per coloro che non vogliono lavorare, come se i disoccupati fossero tutti pelandroni, noi lo abbiamo fatto per i più fragili, ma anche per tutti gli altri: i lavoratori del futuro, per i quali sarà normale l’alternanza studio lavoro, perché il futuro del lavoro è a cicli. Io credo che il RDC è il figlio minore dell’Ubi, lo Universal basic Income, pensato proprio per venire incontro a queste trasformazioni del mondo del lavoro.

L’automazione sempre crescente dei posti di lavoro colpirà il mondo in via di sviluppo mettendo a rischio, secondo alcune valutazioni, l’88% dei posti di lavoro in Etiopia, il 77% in Cina, il 69% in India, con una media globale del 57% dei posti di lavoro sostituiti da macchine. La minaccia dell’automazione ovviamente sta per colpire anche il mondo sviluppato. Si stima che metterà a rischio quasi il 50% dei posti di lavoro. Che fare?

Molti lavoratori dovranno riqualificarsi, ma altrettanti rischiano di rimanere senza lavoro e avranno bisogno di aiuto e sussistenza. È il motivo per cui l’introduzione di UBI come reddito universale è ampiamente dibattuto. UBI è pensato come un sistema che assegna a ogni cittadino un salario minimo, sponsorizzato dallo stato, magari ulteriormente aumentato grazie a produzione e lavoro.

Guy Standing, membro fondatore di Basic Income Earth Network e sostenitore di UBI in India, ha dichiarato a Business Insider: “La cosa più sorprendente che non avevamo previsto è che l’effetto di emancipazione è perfino maggiore dell’effetto monetario. UBI permette alle persone di avere un senso di controllo sulla propria vita. Le persone usano una parte del denaro per pagare i debiti, riuscendo a fuggire dalla schiavitù. Alle donne UBI offre la possibilità di prendere decisioni in autonomia sulla propria vita “.

Ma dove si prendono i soldi? Dagli utili delle aziende! Le aziende, infatti, guadagnano super profitti perché tagliano il costo del lavoro. Dunque, l’automazione in regime di mercato crea un trasferimento dal lavoro al capitale. Per questo è giusto che lo Stato redistribuisca, operando un ri-trasferimento dal capitale al lavoro, tramite, l’UBI.

Certo, il RDC non è come l’UBI, ma è stato un primo passo in avanti in quella direzione. Alla fine, l’Italia, con la Grecia, era l’unico Paese in Europa a non averlo. Stupidi loro o stupidi noi? Serve una visione dell’economia. Serve un’economia che redistribuisca, per gestire insieme i problemi che il futuro può portare e far prevalere la speranza.

A cura dell’On. Sergio Vaccaro.
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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