Con le sue spiagge di un bianco accecante, i paesini imbastiti di paglia e fango, la polvere rossa, la calda ospitalità e i profumi pungenti di spezie, Zanzibar realizza una perfetta fusione fra atmosfere d’Africa e fascino d’Oriente.
Le frenetiche passeggiate a Stone Town sono un’esperienza unica.
Passiamo dal chiasso vivace del mercato giornaliero in piazza - con frutta, verdura e spezie esposte a terra o su carri di legno, tra mani, piedi e occhi che ci cercano - agli odori fortissimi del mercato coperto della carne e del pesce.
Da qui ci si addentra nel centro storico, ragnatela di malandati carruggi liguri ritagliati fra edifici ottocenteschi di un bianco scrostato, costruiti rigorosamente in pietra, da cui deriva il nome “Città di pietra” assegnato al capoluogo.
Balconi in legno scuro a veranda, portoni massicci finemente decorati e sgargianti bazar affollati si inseguono nel labirinto di viuzze. È in fondo ad una di esse che vediamo stagliarsi sulla striscia di cielo pallido del tardo pomeriggio il campanile di una chiesa anglicana accanto al minareto di una moschea. Vicini e pacifici, nel pieno spirito tanzaniano.
Seppure Stone Town sia molto più giovane dei nostri centri abitati - è nata nella prima metà dell’Ottocento - si presenta come una città vissuta, dall’animo antico e sapiente, per via dell’intreccio di influenze architettoniche arabe, indiane e coloniali e dell’aspetto decadente delle costruzioni.
Dalle prigioni per gli schiavi - triste zavorra del passato - all’edificio anonimo in cui visse, bambino, Freddy Mercury, passando per il forte arabo, si raggiunge il porto della città, sulle cui acque si specchia la celebre Casa delle meraviglie, primo edificio dell’Africa orientale ad essere dotato di ascensore e primo di Zanzibar a disporre di corrente elettrica. È qui che va in scena lo spettacolo più suggestivo delle giornate zanzibarine, quello del sole che affonda rapido nel mare rossiccio, dietro alle imbarcazioni tipiche - dhow - lasciate in porto a riposare.
È sufficiente allontanarsi di qualche chilometro da Stone Town verso l’interno dell’isola, per immergersi in una lussureggiante vegetazione dall’intenso aroma di spezie.
Ci addentriamo così in una delle numerose piantagioni di Zanzibar, per conoscere da vicino noce moscata, zenzero, chiodi di garofano, cannella, pepe, curcuma, peperoncino, cardamomo, vaniglia, citronella e caffè, perderci nei loro profumi inebrianti e gustare dolcissimi ananas, cocchi e frutti della passione. Una vera estasi!
Ma il momento gastronomico più intenso del nostro viaggio lo riserva la gita su un sandbank, lingua di sabbia bianca al largo di Stone Town.
Si tratta di un piccolo lembo di sabbia incontaminato, deserto e selvaggio, di un candore abbagliante, che il movimento delle maree fa emergere dai fondali corallini dell’oceano soltanto alcune ore della giornata. Accompagnati da un pescatore e da una guida del luogo, gustiamo su questo banco di sabbia in mezzo al mare un memorabile pranzo di aragoste, cicale di mare, gamberi, calamari, polpo e tonno, cucinati alla griglia all’ombra di un gazebo improvvisato.
Ripulito l’isolotto dai segni del nostro passaggio, salpiamo alla volta dell’isola Changuu, più nota come Prison Island per aver ospitato una prigione, in realtà mai utilizzata, di cui oggi non resta che qualche finestra a grata sul mare turchese e un hotel di lusso all’ombra di un gigantesco tamarindo.
Prison Island è riserva di tartarughe terrestri giganti. Sono le testuggini originarie delle Seychelles, pesanti, coriacee e impacciate, alcune delle quali ultracentenarie, che i visitatori possono osservare da vicino nel loro habitat, accarezzare e nutrire con spinaci.
Lente e tranquille come le tartarughe trascorrono le nostre giornate sulle celebri spiagge bianche di Zanzibar, dove la quiete è interrotta soltanto dai richiami dei “beach boy”, i ragazzi locali sempre pronti a illustrare ai turisti i pacchetti disponibili per le escursioni di gruppo.
Uno dei lidi più spettacolari è quello di Nungwi all’estremo nord dell’isola, dove eleganti resort sorgono ai margini di un villaggio di pescatori, che scopriremo animato dai sorrisi dei bambini e dalle tinte brillanti dei lunghi veli delle donne, animo musulmano di Zanzibar.
Nungwi è un piccolo mondo fuori dal (nostro) mondo, in cui si fa esperienza della vera quotidianità isolana, fatta di comunione e condivisione con natura e mondo animale.
Lo si percepisce dai piedi scalzi dei bambini che giocano accucciati fra rottami, dalle casupole senza vetri alle finestre, dal rosso della terra che si riflette in quello delle lamiere arrugginite dei tetti, dai tanti animali che vivono con e fra gli uomini.
Ma è anche una quotidianità fatta di pause e chiacchiere, che accompagnano l’allungarsi delle ombre. È un tempo lungo, da non misurare mai per non spezzare l’incanto. Nessuna fretta, nessun problema, “hakuna matata!”.
Oltre la cinta di palme che custodisce i vicoli di Nungwi, si apre la spiaggia, una distesa di soffice e fredda sabbia bianca a perdita d’occhio, con decine di dhow arenati per la bassa marea, pescatori al lavoro fra le sacche d’acqua e cumuli di alghe verdi a riva fra mucche magre e gibbose. Uno spettacolo tutto africano.
È nella baia bianca di Nungwi che ci abbandoniamo ai ritmi lenti dell’isola, alle maree che innalzano e ritirano ciclicamente il mare, fra bagni in acque da sogno, passeggiate lungo riva verso Kendwa, tramonti di fuoco sul mare, cene swahili in spiaggia e lunghe chiacchierate con i Masai posti a guardia dei resort zanzibarini.
Pelle color ebano, eleganza innata, vesti scarlatte, armi in legno alla vita (non di rado accompagnate da un cellulare), i Masai sono abili guerrieri provenienti dalla Tanzania continentale, dove abitano le terre fresche degli altipiani vicini al Kilimangiaro, vivendo di pastorizia.
A Nungwi sono in molti a esporre su piccole bancarelle pezzi di artigianato tanzaniano, quali gioielli di perline, cuoio e conchiglie, oggettistica in legno, quadretti in foglia di banana e tele dipinte a tempera.
Una seduta di shopping al mercatino Masai conclude il nostro viaggio in terra africana.
È certo che, se il ritorno al ritmo convulso della nostra quotidianità rende impraticabile lo stile di vita “hakuna matata”, restano indelebili nella memoria la bellezza indolente di Zanzibar e il calore della sua gente.
A cura di Francesca Vinai
Foto Credits: Francesca Vinai