Interrogativi che stanno sempre di più affollando il dibattito dottrinario, ma che non trovano risposta. L’humus su cui si dovrebbe impiantare una qualsiasi riflessione sono le regole attuali, che non sembrano poter concorrere alla creazione di una visione strategica del mondo del lavoro.
La scia che stanno seguendo le disposizioni cogenti, alcune non condivisibili, mira alla gestione di breve periodo della crisi; ma nessuna di queste può costituire la base per fare scelte di rilancio economico. In buona sostanza, non è possibile assegnare agli schemi esistenti oggi nel mondo del lavoro italiano una valenza futura.
Sono troppo agganciati a una visione troppo arcaica, con modelli da non ripetere. L’esempio più emblematico è la scelta di affidare a un decreto la conservazione della stabilità occupazionale del Paese. Da che mondo e mondo i posti di lavoro non si creano per decreto, ma neanche si conservano per decreto.
Si creano e si conservano solo facendo crescere l’economia e i volumi di affari di chi i posti di lavoro li crea e li conserva. Le aziende italiane rappresentano il vero patrimonio dell’Italia, assieme ai beni culturali, e vanno sostenute e incentivate affinché possano creare valore aggiunto.
Questo divieto è, invece, puro doping per un mercato del lavoro asfittico, che si troverà a dover fare i conti con la realtà quando all’improvviso verrà eliminato. E quando arriverà questo momento bisognerà vedere quali aziende saranno riuscite a sopravvivere in un mercato ancora lento e senza ammortizzatori sociali per assorbire i costi del personale.
La realtà del Paese ci propone ben altre esigenze, altre necessità legate al mondo dell’impresa, da cui nascono valore e lavoro. Innanzitutto, servirebbe semplificazione vera e non mascherata; una sorta di intervento straordinario, per quanto straordinario sia il periodo che stiamo vivendo.
Dove, però, non si può non notare come, da un alto, ci sia la burocrazia, tornata alla gestione ordinaria, ma con una visione elitaria, di questioni drammatiche e, dall’altro, il popolo degli imprenditori, dei professionisti, dei lavoratori alle prese con la gestione straordinaria di un’emergenza sociale ed economica mai vista in precedenza. I tempi, gli atteggiamenti, le procedure burocratiche sono e restano inadeguate alla situazione in cui vive oggi il popolo del lavoro.
Ma cosa servirebbe per essere d’ausilio a chi produce ricchezza? La risposta è semplice: approfittare del periodo emergenziale e degli strumenti straordinari e, magari, azzerare l’impatto burocratico con un DPCM. Impossibile da realizzarsi?
No, basta volerlo. E sarebbe già bastato se nella fase iniziale della pandemia da Covid-19 ci fosse stato il coraggio di introdurre l’Ammortizzatore Sociale Unico, proposto dai Consulenti del Lavoro.
Al contrario, abbiamo dovuto sperimentare 25 diverse procedure per richiedere la stessa cosa: uno strumento di sostegno al reddito con medesima causale e da utilizzare tutti. Proposta ancora valida e da potersi attuare immediatamente visto che all’orizzonte ci sono ulteriori periodi di cassa integrazione.
Invece, ci si deve orientare tra una serie infinita di piattaforme, leggi, circolari, note, procedure con l’unico risultato di aver creato un mostro burocratico di dimensioni enormi, che non riesce a soddisfare pienamente le esigenze dei lavoratori.
E in questo contrasto tra élite e popolo si perde di vista il fine ultimo della semplificazione, che è quello di dare la possibilità ai cittadini di poter godere facilmente dei propri diritti. In Italia, invece, arriviamo alla parossistica situazione in cui è difficile adempiere anche solo ai propri doveri, proprio in virtù di complicazioni burocratiche.
Serve, dunque, semplificazione “vera” e rilancio dell’economia reale, in modo da mettere al centro di tutto la piccola e media impresa, volano del nostro Paese.
Le aziende, invece, trovandosi in grandissima sofferenza, diventano aggredibili più facilmente sia dalla delinquenza organizzata che da multinazionali straniere, pronte ad appropriarsi dei nostri migliori brand e distretti produttivi.
Crescono a dismisura, quindi, quelle situazioni, ampiamente denunciate dai Consulenti del Lavoro, in cui si è pronti ad offrire lavoro a poco prezzo, sotto forma di contratto di appalto, impostato sul mancato pagamento di contributi e retribuzioni, che sfocia nelle più tipiche forme di caporalato.
In questo grigio, se non nero, contesto spicca una bella notizia in materia di lavoro etico: la conferenza stampa con cui la Guardia di Finanza ha comunicato i risultati delle indagini sviluppate attorno ad una famosa società di servizi di consulenza, operante nella riviera romagnola.
Le accuse sono le solite: contratti illeciti, interposizione fittizia di manodopera, evasione fiscale. E anche lo schema è sempre lo stesso: acquisire lavoratori di aziende, pagarli a costi irrisori, somministrarli alla medesima azienda di provenienza, a cui poi fatturare importi di retribuzioni e contributi mai pagati.
Una vera azione di dumping sociale e contrattuale, che esclude dal mercato tutte le imprese che, invece, sono rispettose della normativa vigente in materia di gestione dei rapporti di lavoro. È una bella notizia, che dà slancio e fiducia a chi, come i Consulenti del Lavoro, crede fermamente al lavoro etico e regolare.
A cura di Rosario De Luca.