L’idea che ne è alla base, quindi, non può essere il miglioramento delle regole esistenti, perché altrimenti la logica imporrebbe l’adozione di regole nuove in via definitiva. A meno di non voler ammettere che le norme cui si chiede di derogare non sono affatto le migliori possibili e rimettere così in discussione l’intero assetto complessivo dei lavori pubblici.
Lo schema è sempre lo stesso: si presenta un grande problema come se fosse imprevisto o si lascia crescere un problema fino a che non diventi grande al punto da essere ingestibile.
Si inizia quindi a non osservare le norme che sono state poste a presidio dello specifico settore con tanta cura e con motivazioni condivise. Ad un certo punto si procede con delibere in deroga, avendo cura di nominare un commissario con espressi poteri di derogare alle norme ordinarie. Le stesse regole derogatorie, nel tempo, possono essere passibili di cambiamento.
Ma per quale motivo si dovrebbero adottare regole diverse, presumibilmente migliori, per una sola opera stradale e non, ad esempio, per tutti gli infiniti cantieri disseminati sull’intera rete autostradale? Non sarebbe forse meglio abbandonare il continuo ricorso a deroghe e commissari? Atteso che la necessità di una deroga evidenzia che con le vecchie regole è impossibile ottenere i risultati necessari, se vi sono regole migliori è giusto adottarle in via definitiva.
Vale in tutti i settori: è così che si spiega la diffusa attesa di un condono, edilizio o fiscale che sia. A ben vedere si tratta di soggetti privati che nutrono l’aspettativa di veder estesi anche a loro i vantaggi del settore pubblico.
Non si tratta di altro se non di un modo di contrastare la cieca burocrazia che pretende di prevenire ogni male con norme assurde imposte a tutti anziché assicurare la punizione dei malfattori.
In fondo si tratta di ammettere che dietro la scusa della burocrazia e delle regole insostenibili dilaga l’abusivismo e che fra le violazioni più tenui si nascondono meglio quelle più gravi.
L’esempio più assurdo di come sia antica abitudine ricorrere ad una sostituzione delle regole, cambiando i parametri per sostenere che è ben possibile rispettarli, lo si è avuto negli anni novanta, quando gli acquedotti di intere provincie erogavano acqua con livelli di atrazina ben oltre i limiti di legge.
Ci volle l’estro di un ministro della sanità burlone a risolvere il problema: l’acqua venne resa potabile con un decreto che decuplicava i limiti massimi dello specifico agente chimico.
L’acqua era la stessa, inquinata come sempre e non certo mutata dalla pubblicazione del provvedimento in gazzetta ufficiale, ma con un decreto la gente si convinse che era finalmente diventata buona.
A cura di Mary Lin Bolis.