Una contrarietà, la nostra, che non nasce dall’idea che la Carta non debba subire modifiche - basti guardare indietro di dieci anni - bensì dal fatto che l’iter di revisione non possa essere portato avanti da una maggioranza priva di legittimazione popolare - ricordo che il Governo in carica non è stato eletto e che i numeri che lo sostengono sono diversi da quelli emersi alle elezioni politiche del 2013 - e da un Parlamento figlio di una Legge dichiarata incostituzionale.
Ma non è chiaramente solo una questione di forma.
Renzi ci racconta che il futuro del Paese ruota attorno all’esito del referendum e, per una volta, sono d’accordo con lui: il 4 dicembre decideremo infatti se mantenere la possibilità per i cittadini di scegliere i loro rappresentanti a Roma o se invece imbavagliarli con un intricato sistema che favorirebbe un unico partito -guarda caso quello del presidente del Consiglio - e toglierebbe voce a tutti gli altri soggetti.
Il Partito Democratico ci dice che con la Renzi-Boschi si ridurrà la spesa pubblica, sbandierando un risparmio di quasi 500 milioni l’anno. La cifra reale ammonta invece a 50 milioni, il 10% di quanto promesso: un importo che potrebbe apparire elevato, ma che in realtà rappresenta quanto lo Stato spende per il leasing dell’aereo presidenziale. Un po’ poco, se sull’altare di tale misero risultato sacrifichiamo l’elezione dei senatori - che verrebbero in futuro nominati dalle segreterie di partito - e apriamo le porte a un nuovo iter legislativo “asimmetrico” quanto confuso, che genererà conflitti di attribuzione e farraginosità nell’emanazione delle Leggi. Leggi che dovrebbero invece andare incontro a semplificazioni, non solo in fatto procedurale ma anche strutturale, con l’adozione di un maggior numero di testi unici.
Ma ciò che colpisce maggiormente - in negativo, si intende - di questa riforma è il suo carattere fortemente centralista, peraltro in distonia non solo con la nostra “devolution” del 2006 ma anche con le precedenti modifiche volute dal centrosinistra. Si otterrà così che il Governo, in presenza di situazioni che arbitrariamente potrà avocare a sé per un presunto interesse nazionale appellandosi alla “clausola di supremazia”, scavalcherà il parere - o, per meglio dire, la volontà - di Comuni e Regioni e imporrà loro le proprie decisioni, in barba al più basilare principio di autonomia.
Se per la Lega Nord l’imperativo di mandare a casa l’esecutivo Renzi era già cogente, il referendum rappresenta ora un’immediata opportunità per liberare il Paese e restituire voce al popolo attraverso nuove elezioni. Un popolo che - in caso di vittoria del “sì” - avrebbe peraltro sempre meno voce in capitolo nel controllo dell’operato della politica a causa dell’innalzamento sia del numero di firme da raccogliere per le proposte di Legge di iniziativa popolare (da 50 a 150.000) che di quelle necessarie a indire i referendum (portate a 800.000). Se a questo aggiungiamo un Senato - nominato dalle Regioni che, guarda caso, sono quasi tutte (15 su 20) in mano al Partito Democratico - che mantiene le proprie prerogative nei futuri iter di revisione costituzionale, nemmeno la vittoria alle elezioni politiche di un leader che volesse mettere mano alla Legge fondamentale dello Stato basterebbe per conseguire il risultato, poiché si scontrerebbe con il potere di veto di un ramo del Parlamento.
Ultimo punto, ma non certo in ordine di importanza, è che la riforma è stata scritta male e risulta largamente incomprensibile: un fattore di enorme peso poiché, rendendola inaccessibile ai più, si incide in maniera sensibile su quelle che sono le prospettive di partecipazione popolare alla vita democratica. Una deriva che va contrastata con ogni mezzo, lasciando da parte le diverse idee politiche che ognuno di noi può avere in nome di una battaglia comune a difesa dei nostri valori.
A cura di Massimiliano Fedriga