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Recovery Plan: luci e ombre

20/6/2020

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Il piano europeo di rilancio dell’economia dell’Unione, tramite l’emissione di un debito comunitario. 
Il Recovery Instrument, dalla prospettiva italiana, è uno degli strumenti più vantaggiosi del Recovery plan, il piano di rilancio dell’economia presentato dalla Commissione europea. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli, e l’interpretazione sommaria delle misure proposte dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, può creare molti equivoci. 

Quando si parla di Recovery Fund (o Instrument) si fa riferimento alla proposta di Francia e Germania di emettere debito comune, per un valore di 500 miliardi di euro, per far fronte alla crisi innescata dalla pandemia.

Una proposta accolta e incrementata dalla Commissione europea che ha stabilito una somma di 750 miliardi, di cui 500 miliardi sotto forma di trasferimenti e altri 250 miliardi di prestiti. 

Per essere più concreti anche nella descrizione del piano, occorre dire che le risorse che l’Ue intende mettere a disposizione degli stati più colpiti da questa crisi, dovranno essere reperiti sui mercati finanziari, e l’obiettivo è raggiungere i 750 miliardi di euro che, quindi, non costituiscono un punto di partenza, ma di arrivo.  A questi potenziali 750 miliardi si aggiungono le risorse del bilancio pluriennale europeo (2021-2027), cui gli stati membri partecipano in proporzione al proprio Pil e al tasso di disoccupazione degli Stati membri, nel caso dell’Italia la partecipazione si attesta al 12,8%. 

Dal momento che i contributi al bilancio di ciascuno stato sono versati in proporzione al Pil (a differenza della distribuzione del Recovery fund, che sarà calcolato sulla base delle necessità economiche) sarà possibile che Stati in difficoltà come l’Italia ricevano più di quanto dovranno versare. 

Nello scenario in cui tutti i Paesi chiedano un prestito, all’Italia verrà distribuita la cifra di 153 miliardi di euro, di cui 102 sono trasferimenti e 51 sono prestiti. Il vantaggio è senz’altro legato al fatto che, in teoria, potremmo avere liquidità immediata, e un tempo molto esteso per la restituzione (fino al 2058). Se però consideriamo il flusso di cassa, l’Italia al termine avrà guadagnato solo 6 miliardi, una cifra che potrebbe essere erosa dal costo del finanziamento.

Ma ci sono ancora altri aspetti da chiarire. Prima di tutto rimangono da valutare le condizionalità con cui verranno erogati i prestiti e i trasferimenti. Solo allora sarà possibile giudicare ed eventualmente affermare che le risorse del Recovery Fund nei fatti costituiscono una forma embrionale di Eurobond, lo strumento che avevamo fortemente richiesto e che consisteva nell’emissione di titoli obbligazionari comuni all’interno dell’area euro. Bisogna poi aggiungere infine, un ulteriore problema: la tempistica. 

Nel regolamento del Recovery and Resiliency Facility, si legge che la Commissione concede le risorse solo quando i Paesi avranno presentato dei piani dettagliati su come investire quei fondi e le misure adottate per spenderli con efficacia. La Commissione quindi non promette di erogare tutto subito, eppure i tempi degli esborsi sono fondamentali. 

Significa che prima l’Italia riuscirà a presentare piani dettagliati, credibili e operativi, prima otterrà i fondi del Recovery Plan. E  a questo proposito non bisogna dimenticare  che i piani vanno approvati dai vari parlamenti nazionali, altro passaggio che pone molti interrogativi sull’esito finale. 

Un’ultima nota al riguardo del dibattito sugli strumenti comunitari contro la crisi, va necessariamente destinata al Mes. Grazie alla creazione di un fondo ad hoc, il tasso di interesse è di poco superiore allo 0,1%, il ché farebbe pensare a una convenienza nell’utilizzo di queste risorse. Ma a ben guardare, restano almeno tre significative criticità.

La prima è che le condizionalità del two pack non sono state abolite. Il two pack è quel meccanismo di controllo dei bilanci nazionali da parte della Commissione europea che garantisce il rispetto dei parametri del Patto di stabilità e crescita, ora solo momentaneamente sospeso. 

Non essendo stato revisionato quindi, perché per poterlo sospendere del tutto è necessaria una revisione dei trattati europei, va da sé che resta l’impegno da parte degli Stati che facciano richiesta di accesso al Mes, ad effettuare gli aggiustamenti macroeconomici del caso che, normalmente, si traducono in un drastico taglio alle spese dello stato (welfare, pensioni, salute, istruzione e altri settori strategici), con forti ripercussioni sulla vita dei cittadini.

La seconda criticità, difficilmente confutabile anche in futuro, è che le spese dirette e indirette per la crisi sanitaria italiana andrebbero a ripagare anche gli sprechi locali, in particolare per la realizzazione di ospedali poco efficienti ed estremamente costosi. Come è avvenuto purtroppo in Italia, proprio nelle regioni più colpite dall’epidemia.

Infine, solo in ordine di enumerazione, l’ultimo rilievo: i tempi attesi per l’erogazione del prestito. Il Mes dispone le risorse in 7 mesi, una tempistica non favorevole perché è indispensabile avere quanto prima quei fondi. Quindi anche al netto della riduzione sugli interessi, l’opzione migliore resta recuperare la liquidità necessaria sul mercato e avvantaggiarsi delle condizioni favorevoli create dai programmi della Bce.

A cura dell’On. Piernicola Pedicini.
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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