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Quando le riforme non sono efficaci…

14/12/2016

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In certi casi le riforme approvate invece di semplificare complicano terribilmente la situazione.
Dove va il diritto del lavoro? E dove va, soprattutto, il diritto degli imprenditori di essere considerati una risorsa per la nostra economia e non un male necessario da tollerare con malcelata insofferenza? Ruotano attorno a questi due interrogativi i destini di un Paese, il nostro, vittima della sua ipertrofica legislazione che non vede nel mondo produttivo il volano per riavviare l’economia. Semmai il destinatario finale a cui, ogni anno in sede di manovra finanziaria, assegnare qualche nuovo adempimento o tassa. La beffa, oltre il danno, è che spesso (ce lo sentiamo ripetere frequentemente in questi ultimi anni) le riforme che complicano la vita sono studiate e approvate con l’obiettivo dichiarato di semplificare. Il caso della recente riforma sulle dimissioni online per i lavoratori è solo uno dei tanti esempi di legislazione che nel voler fluidificare i rapporti di lavoro, in realtà, li appesantisce e li rende anche più costosi (nel caso di specie per il lavoratore, l’imprenditore e la collettività).
Manca, in sostanza, la consapevolezza che ogni politica attiva, ogni scelta legislativa, ogni azione positiva debba avere come riferimento il sostegno alla piccola impresa, vero e unico perno della nostra economia. Il trend invece va esattamente nella direzione opposta. Risulterà così difficile creare vero sviluppo economico e quindi rilanciare il Paese senza una vera e concreta azione di rafforzamento degli strumenti utili a fare impresa. Si assiste ad uno stranissimo, quanto incomprensibile, fenomeno di autolesionismo. Il comparto che produce valore è penalizzato e vessato, mentre vengono sostenuti e beneficiati quelli che non lo producono. È dal lavoro autonomo che nasce il lavoro dipendente e non viceversa. Affermazione tanto vera quanto inascoltata. Evasori, corruttori, truffatori, caporali, sfruttatori: i termini negativi per definire imprenditori e professionisti che li assistono sono talmente pessimi da incutere quasi timore. Eppure, un Paese senza lavoratori autonomi non potrebbe esistere e certo non possiamo invocare certi esempi, per fortuna lontani nel tempo e nello spazio, che avevano come unica azienda lo Stato e di cui tutti erano dipendenti. Sistemi falliti e sostituiti ormai quasi ovunque dall'economia di mercato al cui centro c’è l'impresa privata. E l’assenza di questa consapevolezza è sotto gli occhi di tutti anche in Italia, dove imperversa l’improvvisazione.
Dalla Legge 407/90 (che con il suo 100% di sgravio per decenni ha contribuito non poco al contenimento del costo del lavoro e al mantenimento di dignitosi livelli occupazionali) si è passati allo sgravio triennale 100%, previsto dalla Legge di Stabilità 2015. Un vero e proprio effetto metadone che ha esaurito ben presto i suoi benefici, considerato che è durato appena 365 giorni, sostituito dalla versione rivista e ridotta della Legge di Stabilità 2016 (appena 40% di riduzione contributiva e solo per due anni). Difficile fare impresa con progetti di lungo respiro se manca la possibilità di avere un minimo di stabilità progettuale. Non a caso il livello dei contratti a termine continua ad aumentare. Le statistiche ufficiali riferiscono che gli occupati a tempo indeterminato crescono dello 0,3% da maggio a luglio (su febbraio-aprile), quelli a termine dieci volte tanto (+3,1%). I lavoratori autonomi, invece, scendono (-68.000 in un mese). Le imprese che dovevano stabilizzare i precari lo hanno già fatto sfruttando il bonus. E tutta l’operazione sgravi-assunzioni peserà sulle casse pubbliche per circa 17 miliardi nell'arco di 7 anni, considerando quelli che i tecnici chiamano i trascinamenti. Questi dati ci dicono molto. Certamente ribadiscono il principio che il contratto a termine è visto dagli imprenditori come unico rimedio all'isteria legislativa. Preferiscono rifugiarsi in un più sicuro contratto a termine dagli effetti conosciuti e limitati nel tempo che non avventurarsi in quelli a tempo indeterminato. Ma ci dicono anche che i lavoratori autonomi si stancano di essere vessati e chiudono. 
E la parabola discendente non è ancora finita. Altri 365 giorni e si cambia. Per il 2017 si annuncia infatti l'azzeramento totale delle agevolazioni contributive, un salasso inaspettato che porterà certamente alla nuova immersione nella fascia del nero di lavoratori appena emersi. 
Le aziende ora sono alla finestra, in attesa di capire dove tira il vento dell'economia. Da qui la preferenza per contratti a breve o a brevissimo. E il Governo dunque si prepara a fermare completamente gli incentivi, puntando su un'altra strada: quella della produttività, che non riesce a decollare da decenni. L'intervento dovrebbe avvenire in due tempi: nella prossima Legge di Stabilità, agendo sulla leva fiscale, ampliando cioè la detassazione sui premi aziendali di risultato; la seconda fase prevedrà la riforma della contrattazione senza però toccare né il contratto nazionale né quello territoriale, ma operando solo a livello aziendale. È evidente che si tratta di progetti di intervento i cui effetti appaiono flebili ad una prima analisi.
Per dare concretezza agli interventi ipotizzati sarebbe necessario farli sviluppare in ben altro contesto economico. Detassare i premi di risultato ovvero intervenire sulla contrattazione potrebbe anche essere utile e giusto, ma non sono interventi che possono da soli far ripartire l'economia. E se l'economia non riparte, le aziende non produrranno maggiori utili e il contesto resterà asfittico. Manca dunque la consapevolezza che è l'humus economico che va coltivato. Andrebbero semplificate le procedure burocratiche, alleviando così le vere e proprie sofferenze patite da professionisti e imprenditori nei rapporti con la P.A.; finanziate opere pubbliche per far ripartire anche l'edilizia e il suo indotto, fermo da un paio di lustri; attratti investitori stranieri, dotando il Paese dei requisiti minimi di modernità nel campo della comunicazione (fibra ottica) e dei trasporti (autostrade e ferrovie), ma anche della certezza e rapidità della Giustizia. Impossibile spiegare ad uno straniero i tempi di un processo in Italia né tantomeno dargli un univoco orientamento giurisprudenziale. Per quale motivo dovrebbe essere scelto il nostro Paese per investire e non uno dei tanti altri maggiormente propensi ad accogliere imprenditori esteri, senza perseguitarli come potenziali evasori già prima del loro ingresso? È questo uno degli interrogativi di fondo che andrebbe risolto, prima di detassare i premi di risultato. Gli interventi vanno fatti a monte del ciclo produttivo e non a valle. Manca dunque la consapevolezza dell'esistenza di condizioni negative. E a questo non si può non aggiungere l'elevato costo del lavoro, situazione testimoniata dall'entusiastica adesione dei datori di lavoro a qualsiasi forma di assunzione agevolata. Difficile ipotizzare premi di risultato da detassare se non si risolvono gli elementi sistemici negativi che minano l'aumento della produttività del nostro Paese. L'osservazione dei fenomeni è una delle fonti da cui trarre spunto per iniziative normative. Non avere tratto spunto dal successo delle norme incentivanti è colpevole. Le risorse finanziarie per sostenerle, assieme agli investimenti per far ripartire l'economia, vanno trovate anche a costo di sacrificare altri settori. Non vi è comparto più fondamentale dell'impresa. Tutto ruota attorno allo stato di salute della nostra economia e dei suoi promotori. Disperdere energie in mille inutili rivoli non centra l'obiettivo né di far decollare il nostro sistema economico, né (conseguentemente) di far lievitare il numero dei lavoratori occupati stabilmente. Il benessere di un Paese, della sua economia, della sua società passa dallo sviluppo dell'impresa, non dalla sua penalizzazione.
 
A cura di Rosario De Luca
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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