Mi sorprendo a rivivere la stessa emozione (un misto di meraviglia, stupore e incredulità), una ventina di anni più tardi, mentre atterro a Reykjavík. La terra del ghiaccio e del fuoco si profila sotto di me. Le coste frastagliate, l’assenza di alberi, la luce indescrivibile di un Paese molti paralleli più in su. Sono inconfutabilmente arrivata ai confini del pianeta.
La prima cosa che colpisce della capitale più a nord del globo terrestre è senz’altro il fatto che non possieda nessuno dei tratti tipici di una capitale. Qui non si rimane imbottigliati nel traffico, non si è infastiditi dai rumori della città, non si cammina all’ombra di grandi palazzi, non ci si imbatte in orde di turisti (al massimo, in qualche viaggiatore solitario).
Tutto sembra magicamente avvolto da un’atmosfera incantata: le piccole case colorate, i negozi modesti, le strade semideserte che si affacciano sull’oceano. Fra le architetture più moderne spicca l’Hallgrímskirkja, capolavoro di quello che è stato definito lo stile “nazionale basaltico islandese”: con i suoi 73 metri di torre, ed in cima ad una collina, questa chiesa dalle forme inusuali sovrasta il centro della città e rappresenta, al tempo stesso, l’edificio più alto del Paese.
Altrettanto inusuale – quantomeno per chi è abituato ai sapori delicati della dieta mediterranea – è uno dei piatti tipici del posto: l’hàkarl (letteralmente ‘squalo fermentato’ o ‘squalo putrefatto’). Nutrirsi di questa pietanza è considerato dalla tradizione come segno di coraggio e di forza, e viene proposto allo straniero come una sorta di “sfida” (che io, per questa volta, non ho accettato).
Il mio viaggio prosegue verso sud, lungo la Ring Road, attraversando la tundra in un susseguirsi di paesaggi che cambiano ad ogni curva: montagne dalle cime arrotondate; laghi ghiacciati; distese di terra vulcanica ricoperte di neve, dove i cavalli vengono lasciati allo stato selvaggio per metà dell’anno; villaggi di tre o quattro case al massimo, distanti decine di chilometri gli uni dagli altri.
Prime due tappe: Skógafoss e Reynisfjara. La prima, indubbiamente la cascata più fotogenica d’Islanda, anche e soprattutto per la facilità impressionante con cui il sole, colpendo le gocce d’acqua in caduta, dà origine a splendidi arcobaleni; la seconda, un’incantevole spiaggia di sabbia nera, incastonata tra monoliti di basalto e accarezzata dalle onde oceaniche.
A seguire ci si imbatte in quel paradiso terrestre chiamato Jökulsárlón: un immenso lago glaciale, nel perimetro del Parco Nazionale del Vatnajökull, in cui fluttuano iceberg dalle forme e dimensioni più svariate e lastre di ghiaccio su cui riposano placidamente le foche.
Sempre in quest’area, munita di ramponi e al seguito di una guida esperta, mi attende l’escursione nella ‘Ice Cave’: una delle tante gallerie dalle pareti di ghiaccio, scavate naturalmente dall’acqua proveniente dai ghiacciai, che si modificano ogni estate – quando le temperature aumentano – e che in più punti somigliano ad opere astratte di arte contemporanea. Una meraviglia della natura ormai sempre più minacciata dal surriscaldamento globale.
Sulla via del ritorno mi concedo una giornata di relax alla Blue Lagoon (laguna blu), una piscina termale alimentata dalla produzione di acqua del vicino impianto geotermico di Svartsengi: qui le acque vengono incanalate nel sottosuolo, nei pressi di un deposito di lava fluida, e raggiungono una temperatura di 37-39 °C. Il colore azzurrino che dà il nome alla laguna è dovuto alla presenza di diversi elementi, tra cui silice, calcare, zolfo e alghe verdi-azzurre, che vengono utilizzati anche a scopo medicinale.
Dulcis in fundo, dopo notti di attesa, aspettando pazientemente al freddo e con lo sguardo fisso verso l’alto, l’Islanda mi concede finalmente l’onore di mostrarmi in tutto il suo splendore il suo gioiello più prezioso, l’aurora boreale: un turbinio di luci verdi danzanti che attraversano il cielo in velocità.
È proprio vero quello che si dice: puoi cercarla e rincorrerla quanto vuoi, ma solo lei decide come e quando mostrarsi. E quando lo fa, io, spettatrice commossa, rimango colpita a tal punto da dimenticarmi persino di fotografarla.
Ma rimarrà immortalata per sempre nella mia memoria, questa terra magica. Questo luogo mistico capace di curare mente e corpo, in cui la popolazione crede nell’esistenza degli elfi e parla ancora la lingua dei suoi antenati, da mille anni. Questo purgatorio di ghiaccio che riesce a sciogliere anche i cuori più duri.
A cura di Martina Cilia.