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Mediazione civile e commerciale, quale futuro?

18/5/2015

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La mediazione in materia civile e commerciale è stata reintrodotta dal D.L. 69/2013 (cd. “Decreto del Fare”) e resterà obbligatoria per un periodo sperimentale di quattro anni, nel corso dei quali il Ministero dovrà eseguire un monitoraggio sugli esiti registrati.
Sebbene i dati sui primi 9 mesi del 2014 segnalano un calo delle cause in materie soggette a mediazione obbligatoria, rispetto al periodo in cui essa non era condizione di procedibilità, permangono una serie di fattori critici che rendono ad oggi lo strumento poco valorizzato e sicuramente migliorabile (opinione dello scrivente). Fra tali fattori, di sicuro, è da segnalare la forte resistenza delle parti a dare il consenso ad esperire effettivamente il procedimento, ossia a proseguire oltre l’incontro iniziale informativo. Se ciò accade, circa il 50% dei procedimenti si chiude con un accordo. Ma perché tante resistenze ad iniziare un cammino di negoziazione, a fronte di una buona probabilità di raggiungere un accordo? I motivi sono molteplici, si possono individuare sicuramente ragioni prettamente di natura economica, in quanto l’esperimento del procedimento da luogo al pagamento delle indennità di mediazione e motivazioni prettamente psicologiche e culturali. Su quest’ultime, senza trascurare l’importanza di altri fattori che non saranno presi in esame, è il caso di spendere qualche parola di commento. Su quali logiche si basa un percorso di mediazione? Un percorso di mediazione si basa su una logica procedurale di compromesso e su una dinamica psicologia di fiducia relazionale. Esso, infatti, mira alla composizione della lite attraverso una proposta che possa “mettere d’accordo” le parti, le quali si andranno ad incontrare su un territorio che non è di nessuno, ossia su una zona di confine che, inevitabilmente, implica il ridimensionamento delle pretese iniziali. Abbracciare tale logica è difficoltoso per l’essere umano in genere, in quanto permeato da una sorta di difficoltà relazionale di base e ancor più difficoltoso per l’uomo nel “conflitto” in quanto abituato alla “distruzione totale” della controparte e a totalizzare in positivo la chiusura dello stesso. Nei confronti delle relazioni sociali l’individuo vive una forte attrazione e, allo stesso tempo, una repulsione, una sorta di ambivalenza affettiva. Siamo spinti alla ricerca della relazione, ma contemporaneamente essa ci spaventa, ci incute il timore di vedere tradita la nostra fiducia di base. L’altro da sé rappresenta, in casi estremi, un pericolo, qualcosa di minaccioso che potrebbe non accogliere le nostre richieste di supporto e di legame. Il rischio di chiudersi in una specie di isolamento è sempre dietro l’angolo. Tali dinamiche psicologiche assumono un peso rilevante anche nella mediazione, e vanno ad intrecciarsi con aspetti di natura diversa e con ulteriori elementi e personalità che si interpongono fra le parti in causa, ossia il mediatore, la presenza dei rispettivi legali, l’organismo stesso. La dinamica relazionale in mediazione è, quindi, molto complessa, e gioco forza, sulla riuscita del procedimento pesano anche influenze esterne. La figura del mediatore, in questo caso, si pone come àncora di salvezza della fiducia delle parti, sta a lui prospettare una sicurezza che è prima di tutto emotiva e poi processuale. Il mediatore, quindi, in termini psicologici va ad assumere il ruolo di “contenitore” delle ansie legate alla relazione che le parti sperimentano nel procedimento, e solo successivamente aver ottemperato tale funzione, eserciterà il ruolo di negoziatore delle posizioni. 
Parafrasando Sartre, “l’inferno sono gli altri”. L’altro è colui “che mi fissa e mi paralizza col suo sguardo; mentre, fino a quando l’altro non c’era, io ero completamente libero, ero cioè soggetto e non oggetto. Quando appare l’altro, nasce il conflitto”. (A porte chiuse, 1945). 


A cura di Luigi Rea
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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