Per capirne le ragioni, occorre partire da una constatazione semplice, purtroppo dimenticata in un’epoca in cui i pixel si moltiplicano in maniera esponenziale, in cui gli schermi di TV, PC e tablet sono alla costante ricerca della nitidezza assoluta, in cui è “bello” ciò che appare perfetto in ogni singolo dettaglio.
Ecco allora un piccolo, ma importante, memorandum.
La fotografia è un racconto. E come accade nella narrativa, chi racconta con le immagini può scegliere se restituire un resoconto meticoloso della realtà che ha davanti agli occhi, oppure se sorvolare sui particolari per lasciare spazio alle proprie emozioni.
Nel primo caso, la fotografia riprodurrà in maniera fedele e minuziosa la scena inquadrata; nel secondo, esprimerà l’interpretazione personale di ciò che l’autore vede.
La descrizione rigorosa di una scena si realizza con una foto molto nitida, ricca di dettagli ben definiti. Ma può risultare banale. È registrazione “veritiera” di una porzione del mondo reale o, per meglio dire, tentativo di riportare una presunta verità. Ma quale sia poi questa verità, è faccenda tutta da chiarire...
Allora, perché inseguire a tutti i costi la nitidezza perfetta?
“La nitidezza è un concetto borghese”, proclamò (almeno così si dice) un grande fotografo del Novecento, Henri Cartier-Bresson, padre del fotogiornalismo. E aveva ragione.
Mettere a fuoco ogni particolare di una scena, evitare mossi e sfocature - sfruttando in modo ottimale l’autofocus o la messa a fuoco manuale, chiudendo per quanto possibile il diaframma dell’obiettivo per aumentare la profondità di campo e/o giocando con il focus stacking (si scatta con la stessa inquadratura una sequenza di foto, ciascuna con un diverso punto di messa a fuoco, da sovrapporre in post produzione per ottenere un’unica immagine perfettamente nitida in ogni sua parte) - non significa raccontare con imparzialità una scena.
Il fatto stesso di escludere dal mirino della fotocamera certi dettagli per inglobarne altri è frutto di una scelta personale, tutt’altro che obiettiva.
E poi, la fotografia non è chiamata ad essere necessariamente una riproduzione fedele della realtà. La fotografia è manifestazione soggettiva di ogni autore, espressione artistica.
Particolarmente calzante è il parallelo con la pittura. Tralasciando la miriade di correnti che la segnarono nella storia - non me ne vogliano i critici! - un particolare movimento pittorico si presta al paragone.
È l’impressionismo: una pittura ispirata dall’“impressione” del momento, dalle sensazioni dell’artista (come può essere una fotografia mossa o sfocata), in aperto contrasto con il tradizionalismo accademico, che imponeva una rappresentazione studiata e meticolosa della realtà su tela (proprio come una fotografia descrittiva pura).
Un esempio? La celebre “Donna con il parasole” di Claude Monet (1886).
L’artista dipinge con picchiettature e rapidi tocchi di colore, accostati gli uni agli altri, tratteggia contrasti cromatici che si mischiano in un insieme indefinito. Nessuna linea di contorno netta, nessun profilo precisamente delineato.
È una vera composizione impressionista: piccole pennellate che rendono l’“impressione” delle forme in movimento. L’insieme, pur senza nitidi particolari, evoca magistralmente una giornata ventosa di primavera.
Percepiamo il sole tiepido, respiriamo un venticello frizzante, scorgiamo le nuvole correre veloci e la gonna e il foulard ondeggiare, calpestiamo - proprio lì, con Monet - un morbido tappeto di fiori colorati.
Allo stesso modo, una fotografia mossa o sfocata (“ad arte” o involontariamente) può risultare preferibile, per forza espressiva, ad una perfettamente nitida.
Quando la consistenza dei dettagli sfuma in un movimento sfuggente, in un profilo impalpabile, in un’atmosfera sognante, la fotografia si fa suggestiva e ricca di pathos.
La sua “incompletezza” lascia ampio spazio all’immaginazione dell’osservatore, che può completarne i tasselli mancanti e leggervi ciò che vuole, secondo la sua personale sensibilità.
Simili fotografie evocative possono ottenersi con un effetto mosso o con uno flou, direttamente in fase di ripresa oppure in post produzione.
L’effetto mosso sfuma i movimenti annebbiando i contorni del soggetto in moto. Per ottenerlo al momento dello scatto si deve impostare un tempo di posa sufficientemente lungo: l’otturatore resterà aperto per il tempo necessario a seguire ed imprimere sul sensore o sulla pellicola la scia (mentre se il tempo è troppo rapido, il movimento risulterà congelato in un nitido istante).
L’effetto flou ammorbidisce i dettagli sfumando i contorni. Lo si ottiene montando un apposito filtro flou sull’obiettivo o, più semplicemente, utilizzando un collant di nylon davanti alla lente dell’obiettivo.
Ancora, si può fotografare con il foro stenopeico, in sostituzione dell’obiettivo, impostando un tempo di esposizione molto lungo per catturare quanta più luce possibile dal forellino. Il risultato sarà una profondità di campo pressoché totale, ma priva della nitidezza che si raggiungerebbe con le lenti di un obiettivo.
Altrimenti, si può scattare una fotografia nitida, per poi agire sul grado di mosso o sulla sfocatura in fase di post produzione. Ad esempio con Photoshop, ricorrendo agli strumenti “Effetto movimento” e “Controllo sfocatura” del filtro “Sfocatura”.
In che modo? Si duplica il livello dell’immagine e su quello copiato si applica il filtro, variando a piacere il grado di mosso o di morbidezza dei contorni. Si agisce poi sull’opacità del livello copiato rispetto al livello di sfondo dell’immagine, che non ha subìto modifiche, per equilibrare il risultato finale.
A cura di Francesca Vinai