Ciò è stato reso possibile dalla trasformazione di tradizioni locali di calzoleria, in sistemi territoriali basati su piccole ditte artigiane specializzate, che si dividevano le diverse lavorazioni di filiera necessarie alla realizzazione delle calzature finite.
Queste concentrazioni territoriali, o distretti calzaturieri, esistono ancora in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Toscana, Campania e Puglia, anche se la globalizzazione e la crisi del mercato interno di questi anni, hanno decimato le aziende e orientato le produzioni sempre più verso le calzature di fascia alta e lusso, a elevato contenuto moda. In altre parole, abbiamo conservato una tradizione semi-artigianale, sacrificando i volumi per concentrarci sul valore.
Tuttavia questa mossa, che ha permesso al comparto un saldo commerciale sempre attivo e un fatturato annuo complessivo di circa 14 miliardi di euro (dati 2014 di Assocalzaturifici), non ci ha messo definitivamente al riparo dalla competizione.
È inutile e pericoloso illudersi che il blasone del Made in Italy da solo ci garantisca, anche in futuro, il posto da primi della classe nelle caratteristiche qualitative del prodotto, perché alla porta ci sono altri Paesi pronti a “farci le scarpe”, sfruttando l’aspetto su cui siamo in ritardo: l’innovazione tecnologica nei processi di fabbricazione.
Su questo punto è meglio sgombrare il campo da equivoci e gattopardismi. Non si tratta di introdurre uno o due macchinari nuovi di zecca o un sistema di taglio assistito da un software dedicato: non è questa l’innovazione tecnologica che ci serve.
Per spostare verso l’alto l’asticella della qualità e della competitività, invece, dobbiamo avere il coraggio di investire in nuove tecnologie nella logica di una ridefinizione da cima a fondo dei processi produttivi, del know-how e dell’organizzazione aziendale, passando dalla dimensione di ditte a quella di imprese.
Non si tratta di sacrificare la tradizione alto-artigianale italiana, come qualcuno potrebbe temere, ma di passare da processi organizzati secondo la logica manual intensive, a linee di produzione in cui il talento creativo, lo stile e il saper fare si esprimano nella capacità di guidare operazioni compiute da sistemi robotizzati e da macchinari a guida digitale, che consentono lavorazioni delicatissime con standard di precisione altrimenti improponibili.
Questo - e non altro - vorrebbe dire attuare nel settore calzaturiero la cosiddetta Manifattura 4.0 di cui si sente parlare spesso ultimamente. C’è bisogno di processi produttivi riorganizzati, di dipendenti formati per lavorare in modo diverso rispetto a oggi e di un cambio di mentalità a 360 gradi, ma a mio parere tutto ciò è indispensabile per “fare le scarpe” alla crisi. Dobbiamo essere disposti a cambiare prima di essere costretti a farlo.
A cura di Giordano Torresi