Il reato in disamina è punito dalla Legge italiana ai sensi dell'art. 572 c.p., che testualmente dispone: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente [Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina], maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno o in presenza di minore degli anni diciotto. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni”.
La condotta penalmente rilevante consiste in comportamenti di vessazione fisica o morale non necessariamente qualificabili, se singolarmente considerati, come reato, espressi mediante azioni od omissioni e ripetuti nel tempo. Il reato si configura qualora sia dimostrata la "sistematicità" di condotte violente e sopraffattrici, ancorché queste non realizzino l'unico registro comunicativo col familiare, ben potendo tali condotte essere intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la persona offesa (Cass., Sez. III, 11 febbraio 2016, n. 14742). In considerazione del regime sanzionatorio dell'art. 572 c.p., molto più severo rispetto a quello previsto invece per i reati di percosse, minacce ed ingiurie, ma anche preso atto della clausola di sussidiarietà prevista espressamente per la rilevanza autonoma delle percosse (art. 581 del codice penale), hanno indotto la dottrina maggioritaria a ritenere che questi reati risultino assorbiti nel delitto di maltrattamenti. L'art. 572, comma 3, c.p. prevede un aggravamento della pena per i casi in cui dai maltrattamenti derivi una lesione personale grave o gravissima o la morte del soggetto passivo. Con riferimento all'elemento soggettivo richiesto, prevalente sia in dottrina sia in giurisprudenza è la tesi che ritiene sufficiente il dolo generico.
In particolare la Corte EDU, con la sentenza Talpis c. Italia, ha ritenuto violato l'art. 2 della CEDU dal comportamento delle Autorità nazionali le quali, malgrado la denuncia della ricorrente, non avevano condotto alcuna investigazione, salva l’audizione della stessa interessata, avvenuta peraltro soltanto sette mesi dopo la denuncia. Inoltre, nonostante le predette Autorità conoscessero o fossero nella condizione di conoscere già da tempo le precedenti violenze domestiche subite dalla vittima, non avevano emesso alcun ordine di protezione, o posto in essere altre specifiche misure per tutelare la stessa e la sua famiglia dal marito il quale, a seguito dell’ennesima lite, aveva infine ucciso il figlio e cagionato lesioni da accoltellamento alla moglie.
Peraltro la stessa Corte ha ribadito che non tutte le presunte minacce al diritto alla vita obbligano l’Autorità ad impedirne la realizzazione attraverso misure concrete. Affinché possa dirsi sussistente un obbligo positivo di attivazione da parte dell’Autorità per realizzare misure finalizzate ad impedire il potenziale nocumento del diritto alla vita, deve dimostrarsi, da un lato, che la medesima Autorità sapeva o avrebbe dovuto sapere che un dato individuo aveva subito una minaccia, derivante dall’attività criminale reale ed immediata di un terzo, dall’altro, che non siano state adottate misure che ragionevolmente avrebbero potuto scongiurare il summenzionato rischio.
La condanna dell'Italia da parte della Corte EDU è emblematica delle difficoltà, da parte delle Autorità, di proteggere le persone offese da conseguenze molto gravi. La Legge, infatti, interviene soltanto quando l'equilibrio è ormai compromesso e si sono già innescati, nell'ambito della famiglia, quei meccanismi che conducono alla rottura definitiva dei vincoli affettivi. Il diritto è infatti restio a dirimere i contrasti intrafamiliari, se non quando le vittime siano dei minori o comunque si configurino ipotesi di gravi reati. Altro problema si verifica allorché sia effettuata la denuncia ma passino mesi prima che si instauri il processo penale, consentendo al familiare violento di porre in essere atti di violenza in successione crescente, esponendo gli altri famigliari a conseguenze molto gravi.
Pertanto, nei casi di maltrattamenti contro familiari e conviventi, riveste un ruolo fondamentale l'irrogazione di misure cautelari da parte dell'Autorità Giudiziaria, che consistono in limitazioni della libertà personale o della sfera giuridica dell'individuo, disposte anche nella fase investigativa, nel rispetto dei presupposti di Legge. Sarebbe inoltre auspicabile un provvedimento legislativo che consenta a Polizia e Carabinieri, su ordine dell'Autorità Giudiziaria, di emanare misure preventive e cautelari rapide ed efficaci, al fine di prevenire lesioni o morte dei soggetti passivi del reato.
A cura di Elisa Fea