Chiediamoci quanti posti di lavoro si potrebbero creare e quante piccole imprese del nostro territorio avremmo potuto salvare, se solo ci fosse l'obbligo di indicare nell'etichetta la provenienza di un prodotto manifatturiero, come già accade nel settore agroalimentare.
La difesa del Made in Italy è stata probabilmente una delle battaglie che maggiormente ha caratterizzato la mia esperienza in Parlamento Europeo. È una delle battaglie più complesse per l’Italia, perché esiste una larga maggioranza di Stati che da anni si oppone all’approvazione dell’Articolo 7 del Pacchetto "Sicurezza dei prodotti e vigilanza del mercato" per quanto riguarda l’indicazione obbligatoria dell'etichettatura di origine, il cosiddetto Made in.
L’obiettivo di questo articolo è di rendere più trasparenti per i consumatori le informazioni sull’origine dei prodotti e assicurare parità di condizioni tra produttori europei e quelli di Paesi terzi che già dispongono di una legislazione analoga. Sono più di dieci anni che le imprese e i consumatori europei aspettano di ottenere una trasparenza che già da molto tempo è presente nei nostri principali mercati concorrenti.
Uno studio della Commissione europea del 2015 ha messo in luce una serie di fatti significativi. In primis, che i cittadini europei vogliono conoscere il luogo di produzione dei beni che comprano.
In secondo luogo, che le imprese europee ritengono che il Made in sia importante per la propria competitività. Fondamentale soprattutto in cinque settori: ceramiche, calzature, tessile abbigliamento, gioielleria e mobili.
Infine, che l'introduzione dell'etichettatura di origine rafforzerebbe il valore dei prodotti delle piccole e medie imprese, che non hanno marchi aziendali sufficientemente conosciuti.
E allora, sulla base di queste considerazioni, perché il Consiglio europeo non delibera la tutela del Made In?
La battaglia che sto combattendo da quando mi sono insediata in Parlamento Europeo è una battaglia di civiltà. Anche perché il principio secondo cui i consumatori hanno il diritto di essere adeguatamente informati sull’origine dei prodotti che acquistano, è già vigente sia negli Stati Uniti che in Cina, dove il Made in è obbligatorio.
Il Made in consente di comunicare il valore che il Paese di provenienza incorpora, agli occhi del consumatore, per ciò che concerne non solo la qualità del prodotto, ma anche gli standard sociali e ambientali che in quel Paese sono in vigore.
E quelli italiani ed europei, di cui giustamente andiamo orgogliosi, hanno un costo rilevante per le imprese e per i cittadini.
Senza il riconoscimento del Made in, quello che potrebbe essere un punto di forza o un valore aggiunto per le nostre produzioni, si trasforma in un fardello che ne mina, spesso irrimediabilmente, la competitività.
Non si chiede di alzare barriere, né tantomeno di abbassare gli standard. La nostra capacità di competere deve basarsi sulla qualità e non su una corsa al ribasso nelle regole o sulla costruzione di improbabili barriere di protezione.
E allora, dobbiamo finalmente chiudere questo dossier, ma per farlo occorre l'impegno di tutti, innanzitutto quello del governo italiano, che dovrebbe considerare quella sul Made In una battaglia essenziale per il futuro e lo sviluppo del Paese.
Nel maggio 2016 il Parlamento europeo si è espresso positivamente sulla mia proposta di legge sulla “strategia per il mercato unico”. Un lavoro molto duro e molto osteggiato da parte di numerosi Paesi europei contrari al Made in: non era per nulla scontato che il risultato finale del voto potesse essere positivo.
All’interno di questa relazione ci sono tre paragrafi votati a larga maggioranza che hanno richiesto un dispendio enorme di forze, facendo rete con associazioni ed imprese, per giungere ad una mediazione
condivisibile per tutti.
In particolare, l'appello per una rapida adozione, da parte del Consiglio, del pacchetto relativo alla sicurezza dei prodotti e alla vigilanza del mercato; l'invito alla Commissione a determinare quali etichette sono indispensabili e quali no per fornire ai consumatori le informazioni essenziali; e la richiesta di introduzione di un sistema europeo unico di protezione delle indicazioni geografiche dei prodotti non agricoli nell'UE, con l'obiettivo di creare un sistema unico europeo, ponendo così fine a una situazione inadeguata ed estremamente frammentata in Europa.
Sono passati anni e per me il Made in rimane un obiettivo costante, tant’è che proprio nel febbraio di questo anno, precisamente il 6 febbraio a Strasburgo, mi sono recata personalmente dalla Commissaria Elzbieta Bienkowska (che proviene dalla Polonia, Paese contrario all’indicazione obbligatoria dell’etichettatura di origine) per chiederle di non lasciar cadere nel dimenticatoio il famoso articolo 7.
Tant’è vero che nella recente lista dei dossier che verranno ritirati, e quindi non più oggetto di discussione
con il Consiglio, non compare il Pacchetto del 2013.
La battaglia prosegue: per me il Made in resta e rimarrà una meta da raggiungere e continuerò a perseguirla qualora venissi nuovamente rieletta al Parlamento europeo il prossimo maggio 2019.
A cura dell'On. Lara Comi.