Non siamo un Paese povero. Non siamo un Paese perduto. Non siamo un Paese di sole brutture. Siamo una terra magnifica, dove una grande varietà di paesaggi - spesso unici - si concentra in distanze contenute. L’Italia ha un sesto delle ricchezze artistiche e culturali del pianeta e un’enorme potenzialità turistica ancora inespressa. |
Come senatrice di questa Repubblica sono orgogliosa del mio Paese e della sua storia.
So però che dobbiamo coinvolgere in questo senso di fiera appartenenza il maggior numero di persone possibile. Lo splendore e la bellezza del nostro Paese devono essere alla portata di tutti e non il privilegio di pochi.
Non siamo un Paese povero ma diseguale. Tre delle famiglie più ricche hanno 6 volte il reddito disponibile dei 12 milioni di italiani più poveri. Siamo il mare del precariato che toglie la speranza di un futuro normale a milioni di giovani. Chi quella speranza non vuole perdere cerca lavoro oltre frontiera, in Paesi più accorti del nostro. Com’è possibile che i migliori cervelli italiani, così apprezzati nel mondo, lavorino per i centri statali con contratti precari?
La disuguaglianza non è salutare. Storicamente è dimostrato che l’Italia è andata meglio quando si sono ridotte le distanze tra gli agiati e i ceti sofferenti. Il boom economico degli anni ‘60 è avvenuto in concomitanza con l’emancipazione di quanti avevano solo il lavoro e non la rendita. In seguito, a mitigare le disparità sono state le politiche concrete e le opportunità dei fondi comunitari strutturali.
Non siamo un Paese perduto ma troppo spesso distratto. La giustizia è lenta, la corruzione diffusa. Non è costume affermato prendersi le proprie responsabilità. Spesso è più facile scaricare su altri le proprie colpe. Facciamo troppo affidamento su raccomandazioni e “conoscenze”: così emergono i mediocri e gli incapaci, non i migliori e i competenti.
Le imprese devono dare il loro contributo. La produttività del lavoro in Italia non è bassa dappertutto. Laddove lo è, non è colpa della globalizzazione e della rigidità del mercato del lavoro ma di investimenti che, negli ultimi quindici anni, sono andati in ricerca e innovazione meno della metà di quanto è accaduto nelle imprese tedesche o del nord Europa. Se talvolta gli impianti e i macchinari sono obsoleti rispetto alla concorrenza è perché si è preferito accumulare gli utili anziché reinvestirli nell’azienda.
Da troppi anni non facciamo politiche attive per ridurre la diseguaglianza e per tutelare il lavoro. Dobbiamo riprenderle al più presto e abbandonare l’austerity, figlia della logica per cui l’economia finanziaria prevale su quella reale. Le imprese devono tornare ad assumere a tempo indeterminato e contribuire a eliminare il precariato.
Poi la legalità. Non è un tema etico, buonista, come usa dirsi oggi. La legalità è questione economica. Da sempre, un ambiente civico, bonificato e trasparente porta un’economia sana e prospera. Mafie e corruzione portano povertà e asfissia produttiva. Mafie e corruzione sono la causa della crisi, non il suo effetto. Combattere per la legalità non è bello, conviene. Dobbiamo riformare il regime della prescrizione dei reati, aumentare le pene per la corruzione e reintrodurre il falso in bilancio.
Non siamo un Paese di sole brutture ma a quelle che ci sono dobbiamo porre rimedio. Consumiamo troppo suolo e contiamo sul trasporto su gomma. Il futuro è nell’innovazione e nella ricerca di soluzioni inedite. L’edilizia sfrenata e le vetture a carburante fossile erano l’economia di ieri. L’ambiente non ce lo consente più.
L’Italia deve essere la meta di chi cerca il bello per l’occhio e il clima mite, la dolcezza del paesaggio e la meraviglia dell’arte. Dobbiamo agevolare l’industria alberghiera, mantenere una ricezione di alta qualità, liberalizzare i taxi, conservare il primato enogastronomico.
Questa è l’Italia che vorremmo e che ci guiderà fuori dalla crisi.
A cura di Lucrezia Ricchiuti