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L’equo compenso del professionista

10/3/2017

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Tariffe obbligatorie per i liberi professionisti ordinistici: il dibattito è più che mai aperto e merita una riflessione.
La recente ordinanza della Corte di Cassazione in materia di onorari professionali (n. 24492/2016) ha di fatto riaperto il dibattito sulla necessità di ripristino delle tariffe obbligatorie per i liberi professionisti ordinistici. Dibattito, a dire il vero, mai placatosi ma che aveva trovato negli interventi del Governo Bersani un muro invalicabile. In discussione c'è il più che legittimo diritto dei lavoratori autonomi - iscritti agli Ordini professionali - ad avere dei chiari riferimenti tariffari a cui perequare le proprie prestazioni. L'ordinanza della Suprema Corte in merito è tranchant e non lascia spazio ad interpretazioni diverse. Il giudice che provvede alla liquidazione giudiziale del compenso professionale deve tenere inderogabilmente conto dei criteri ministeriali, che determinano appunto i parametri per la liquidazione dei compensi professionali maturati a fronte della prestazione erogata. Dunque, i parametri non sono modificabili al ribasso ma devono tenere conto di un principio che sembrava essere diventato desueto: il decoro della professione. L'applicazione del compenso economico al di sotto dei minimi tariffari presuppone sempre il rispetto del decoro della professione, tenendo anche conto dell’importanza della causa e dell’utilità dell’opera prestata.
E questa decisione della Corte di Cassazione è il miglior viatico per l'azione intrapresa dagli organismi di rappresentanza degli Ordini professionali. Nei recenti passaggi parlamentari del ddl n. 4135 sul lavoro autonomo, il Comitato Unitario delle Professioni ha infatti posto l’attenzione in particolare sul concetto di "equo compenso", quale diritto per il professionista di avere riconosciuta la pretesa - pur nella libertà della determinazione contrattuale delle parti - di un importo minimo tale da non lederne la dignità.
La previsione normativa, ricercata attraverso l'inserimento nel c.d. “Jobs Act Autonomi” di un equo compenso da riconoscere al libero professionista, ha contenuti ampi e diversi. Mira a tutelare, alla luce della realtà economica attuale, il ceto professionale che di fatto - contrariamente alla malintesa diffusa considerazione che lo vorrebbe quale settore privilegiato - è in massima parte costituito da lavoratori intellettuali che patiscono lo scarso potere contrattuale a fronte di controparti economicamente più forti.
Ecco allora che il riconoscimento del diritto all’equo compenso, inteso quale individuazione di un criterio ragionevole che, senza sottrarre ai giudici la discrezionalità nella sua determinazione concreta, riconosca la doverosa tutela ad ogni singolo professionista, rappresenterebbe un conquista di civiltà, sociale e giuridica. Conquista che sarebbe del tutto distinta dalla astratta fissità dei minimi tariffari, cui non è necessario ritornare e dai quali il diritto in discorso è ontologicamente distinto.
Del resto non si tratterebbe che della opportuna traduzione in norma positiva di princìpi noti al nostro ordinamento, peraltro sempre più diffusamente riconosciuti, considerato che già più volte la Corte di Cassazione ha affermato la necessità che il compenso del professionista abbia riguardo della sua dignità e del decoro della professione che esercita, senza questo potersi tradurre in importi simbolici (oltre la sentenza sopra citata, vedi anche sentenza n. 25804/15).
L’accoglimento delle istanze delle categorie professionali sul punto non sarebbe, poi, che la riscoperta (ennesima) della attualità della nostra Costituzione, considerato che i princìpi di proporzionalità e dignità della retribuzione fissati dall’art. 36, in più occasioni sono stati dichiarati dalla stessa Corte costituzionale non esclusivi del lavoro subordinato, ma estesi anche alla categoria dei lavoratori autonomi. Principio questo non più eludibile in quanto i professionisti intellettuali traggono sostentamento dalla propria attività lavorativa, potendo perciò versare in condizioni di bisogno ed assoggettamento simili a quelle dei lavoratori subordinati, tali da richiedere la tutela della adeguatezza del loro compenso, a prescindere dalla indagine sulla qualificazione della natura della prestazione lavorativa.
L'ultima ordinanza della Corte di Cassazione riapre dunque un dibattito mai sopito ed impegna il decisore politico a trovare una soluzione normativa che dia generalizzata attuazione non solo all'art.36 della Carta costituente, ma ancor più all'art. 1 che vuole la nostra Repubblica fondata sul lavoro, sia subordinato che autonomo. Che sono entrambi meritevoli di eguali tutele.
 
A cura di Rosario De Luca
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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