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L’artigiano e l’arte del saper fare

10/3/2017

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Alcune attività e professioni rischiano di comparire e con loro tutto il significato intrinseco che esse possiedono.
Quali saranno i lavori principali che occuperanno la nostra quotidianità tra venti o trenta anni non lo sappiamo ancora, semplicemente perché si tratta di occupazioni ancora da inventare. E a stravolgere ulteriormente un nostro possibile orizzonte futuro neanche tanto lontano, contribuiscono le previsioni accreditate che ci informano che anche la metà delle attività svolte comunemente oggi subiranno una massiccia automatizzazione.
Forse siamo ancora in tempo a non far scomparire totalmente alcuni lavori manuali che già adesso si trovano pericolosamente incamminati sulla via dell’oblio, svolti da artigiani abili nel creare, assemblare, aggiustare, accomodare, migliorare, perfezionare, trasformare oggetti esistenti o nuovi. La sarta, l’ebanista, il ciabattino, lo stagnaro, il falegname (quello vero, che parte dal legno di albero, non dai preconfezionati), l’arrotino, la rammendatrice pare non servano più, a meno di non inserirli come cameo in una startup. E il prototipista, soppiantato dalle stampanti 3D?
Ora si predilige il tutto-uguale e spersonalizzato, il tutto-pronto preconfezionato e omologato, più facile da consumare e più comodo da buttare, senza attaccamento né rimpianti. Le attività artigiane di un tempo, invece, facevano sospirare l’oggetto, la cui nascita necessitava di tempo, anzi di tempi diversi: quello dell’ideazione, quello della progettazione, quello della costruzione con spazi temporali che andavano dall’approvvigionamento dei materiali alla giusta stagionatura o maturazione del manufatto.
La comodità del prodotto usa e getta ha sveltito tutto, ha fatto scordare l’arte del riuso, del riutilizzo e della riqualificazione di un bene, qualsiasi sia il suo valore. Dimenticando queste qualità, si è diventati velocemente succubi dell’Oggetto con la “O” maiuscola, di un qualcosa con la durata di “vita” già segnata, privo di possibilità alcuna di recupero e di riciclaggio. La comprensione e la conoscenza dell’inanimato deve passare necessariamente dall’osservazione dell’oggetto nel suo complesso, ma lo sguardo incuriosito deve indagare anche sulle sue componenti, sul come è fatto, sui movimenti che può o non può compiere. Non riusciamo ad affezionarci in modo duraturo a qualcosa che cela dietro a una saldatura plastica e inamovibile il cuore o il movimento interno o l’intreccio tra trama e ordito. L’indifferenza è l’opposto dell’empatia: con la prima e senza la seconda riusciamo a riempire le discariche con ogni sorta di oggetto ai suoi primi segni di cedimento prestazionale e senza patemi d’animo.
Molte cose che ci circondano oggi non hanno un fronte o un retro, un fuori a cui corrisponde un dentro ispezionabile, si usano e basta, finché vanno, finché sono adatte allo scopo. Un esempio su tutti è ben rappresentato da un attrezzo da utilizzare in cucina, tipo un mietitrebbia in plastica di piccole dimensioni, dotato di un’estetica funzionale sicuramente studiata, che si chiama “rullo forapasta”. Un utensile con una percentuale di uso durante l’anno che rasenta meno dell’1%, ma con una caratteristica molto ben sviluppata, che è quella dell’impossibilità di rimessaggio nelle odierne cucine, tutte dotate di cassetti con scomparti sagomati. Un oggetto destinato a finire dentro pescere rettangolari mai usate, dove può giacere indisturbato ben più dei tre anni di garanzia allegata alla confezione di vendita. Acquistare un congegno per forare la pasta sfoglia significa non conoscere gli attrezzi che ci circondano e che già possediamo, perché basterebbe utilizzare i rebbi di una qualsiasi forchetta per ottenere lo stesso risultato.
Chi ha fatto il bambino negli anni Sessanta era doppiamente fortunato quando riceveva un balocco, perché ci poteva giocare con due modalità: la prima quella classica, fin banale; per attivare la seconda, invece, bastava sottrarre dal laboratorio paterno un cacciavite o un coltellino e si era didatticamente impegnati per un discreto numero di ore, imparando e capendo a fondo il funzionamento di un orologio o scoprendo quali e quanti pezzi sono presenti in una sedia…
L’attenzione era posta al saper fare (e dis-fare) e al conseguente piacere di conoscenza sviluppato da queste due azioni. Dalle botteghe artigiane, a volte veri e propri dopo-scuola per gli adolescenti, si conquistava la sapienza dei gesti e si gettavano le basi per una proficua collaborazione culturale al posto di un’improduttiva competizione commerciale. Seguendo la regola della 10.000 ore di applicazione pratica elaborata dal sociologo Malcom Gladwell, un artigiano diventa maestro nel lavoro grazie all’applicazione quotidiana unita a talento, ma soprattutto grazie all’amore verso il proprio operato. Chi lavora manualmente sa che deve unire la propria passione con la creazione di qualcosa di pratico, di utile, di servibile e tramandabile. Il talento deve essere coltivato a bottega, con l’impegno e la dedizione di ore utilizzate al perfezionamento del gesto, fatto di vaglio di materiali, di attrezzi, di tempistiche studiate. Le tecniche tradizionali vanno riutilizzate, altrimenti si rischia di dar peso quasi esclusivamente alla velocizzazione della produzione, creando oggetti a macchina, tutti uguali, togliendo consapevolezza al gesto creativo. Il vero artigiano risponde in prima persona del proprio operato, conosce e ricorda nel tempo ciò che ha realizzato e solo così riesce poi - nell’evenienza - ad apportare modifiche o aggiornamenti a ciò che ha creato.
Oggi si fa in fretta a dare del falegname a qualcuno, solo perché lavora con il “legno” o molto più probabilmente con dei suoi succedanei. Il falegname di una volta era in grado di far nascere il mobile o l’infisso o il soffitto, inventandone il design personalizzato allo scopo e il suo lavoro andava dal disegno alla ceratura finale. In realtà viviamo avvolti da oggetti anonimi, anche se tutto appartiene a un brand. È impossibile risalire all’autore, manuale o mentale: sono oggetti orfani in partenza. E pensare che fino a pochi anni fa le viti erano a vista, orientate tutte con il taglio ugualmente direzionato, permettendo così di esercitare un’uguale tensione su ogni parte del manufatto, rendendo più agevoli gli interventi di manutenzione e contribuendo a una visione estetica d’insieme più curata. Si univano così funzionalità e bellezza in un unico gesto, senza camuffamenti.
Torneranno le abilità geniali per risvoltare i cappotti, rivitalizzare i mobili, rammendare le calze, tappezzare le poltrone sfondate dall’uso? Se sì, ci sentiremo dei novelli Frankenstein: si potrà ridare nuova vita a oggetti di arredo, a capi d’abbigliamento, anche destinati a “tutti i giorni”, rendendoli meno inanimati e più nostri, ma soprattutto più duraturi.
 
A cura di Francesca Landriani
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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