Nel corso degli anni il modo di fare e di essere genitori è molto cambiato. Le cose sono mutate per le figure femminili, sempre più divise tra il desiderio di essere madri e di realizzarsi individualmente nel mondo del lavoro. La maternità, infatti, non rappresenta più l’unico ed indispensabile rifermento identitario e le donne investono maggiori energie in termini di studio, formazione e lavoro.
Anche la figura del padre sta cambiando: la paternità tradizionale, che si basa su concetti quali autorità, virilità, capacità di procacciare risorse, sembra farsi da parte, lasciando sempre più spazio all’emergere di nuove forme di intendere e vivere la genitorialità. Si affermano quindi figure maschili maggiormente coinvolte e desiderose di partecipare alla cura dei figli.
Molto è cambiato quindi, eppure ancora oggi diventare genitori è un’esperienza diversa per uomini e donne. Diverse sono le aspettative, le priorità, le emozioni, i modi di vivere questa transizione. Diversi i modi in cui ci si pensa e si riorganizza la propria vita con la nascita del nuovo venuto, dopo un’attesa durata nove mesi. Con la transizione alla genitorialità cambia il modo di intendere la propria identità ed emergono con forza le aspettative legate alla figura materna e paterna. Vengono a galla, infatti, delle precise “regole del sentimento” che determinano che cosa si deve o si dovrebbe provare, così come regole sui comportamenti ritenuti più appropriati per padri e madri.
Che cosa succede quindi nelle coppie con la nascita di un figlio? Quali caratteristiche e significati assumono la maternità e la paternità?
I dati del rapporto Istat “La divisione dei ruoli nelle coppie” del 2010 forniscono alcuni indizi su come ci si organizza con l’arrivo di un figlio e su quali sono i diversi ruoli all’interno della coppia. Per le donne lavoratrici si assiste ad un netto incremento di ore dedicate al lavoro di cura, mentre per gli uomini essere padre comporta una minore ridefinizione dell’organizzazione della vita quotidiana ed eventualmente un aumento del tempo da dedicare al lavoro extradomestico. L’85,9% delle madri svolge infatti almeno un’attività di cura dei figli in un giorno medio, contro il 57,8% dei padri. Inoltre, le prime dedicano a tali compiti mediamente due ore e 13 minuti, i secondi un’ora e 13 minuti.
Per quanto il lavoro familiare sia certamente più condiviso rispetto alle generazioni precedenti, continua comunque a persistere una differenza di genere nella divisione dei compiti di cura. Anche perché, se è vero che il contributo maschile è in aumento, tuttavia esso continua ad essere modesto, accessorio e spesso limitato ad attività ludiche e ricreative, che sono anche quelle meno quotidianamente necessarie e allo stesso tempo più gratificanti da un punto di vista relazionale e affettivo.
Questo è vero anche per quelle famiglie più paritarie, in cui entrambi i membri della coppia sono occupati nel mercato del lavoro e cercano di spartirsi in modo equo i lavori domestici. Alcune ricerche condotte in ambito sociologico mostrano infatti che con l’arrivo del primo figlio si assiste ad una ridefinizione degli equilibri familiari che porta a galla alcuni elementi tradizionali.
Il contributo “La transizione alla genitorialità”, a cura di Manuela Naldini, attraverso delle interviste rivolte a giovani padri e giovani madri, mostra l’affermarsi di una differenziazione dei compiti per cui, di nuovo, le pratiche di accudimento e cura restano per lo più appannaggio delle madri. Tale specializzazione dei compiti si giustifica sulla base di ciò che è meglio per il bambino: la presenza della madre viene ritenuta indispensabile per la buona crescita del figlio, soprattutto nei primi anni di vita, alimentando così un modello di insostituibilità materna. Inoltre si fa riferimento alla natura, al corpo, all’istinto per motivare le scelte di uomini e donne nella gestione della cura, considerando la propensione e l’abilità in questo ambito “naturalmente” femminile.
Tutto ciò non stupisce se si osservano le opinioni dei giovani rispetto ai ruoli genitoriali. Ragazze e ragazzi hanno un’idea ben precisa sulle caratteristiche che madri e padri dovrebbero avere, come ci dicono i dati qualitativi di uno studio ancora in corso presso l’Università degli Studi di Torino. Nella maggior parte delle interviste, infatti, i giovani attribuiscono caratteristiche specifiche alla figura materna: la sua sensibilità e disponibilità le conferiscono il ruolo di deputata alla cura e al sostegno affettivo-psicologico dei figli. Non che la figura paterna sia sottovalutata, anzi, essa viene considerata un importante punto di riferimento. E nonostante questo la mamma continua ad avere quel quid in più, la mamma è sempre la mamma. Il rapporto madre-figlio si crea infatti a partire dalla gravidanza, è innato e per forza di cose qualitativamente diverso da quello padre-figlio. Indispensabilità materna e naturalità della cura tornano quindi nuovamente ad intrecciarsi nei discorsi e nelle aspettative.
La dimensione della cura dei figli rappresenta dunque un ambito in cui è ancora chiara e interiorizzata una differenziazione dei ruoli, delle competenze e dei tratti identitari di uomini e donne, padri e madri. Tali differenze vengono giustificate richiamando le diversità biologiche e dei corpi, ma anche le diverse esperienze e opportunità di apprendimento delle capacità di cura e di gestione delle emozioni. Differenze che vengono inoltre confermate e perpetuate dal contesto istituzionale e culturale del nostro Paese, che fatica a promuovere e legittimare modelli che si distaccano dalla visione della donna come principale responsabile e dispensatrice di cura.
A cura di Lucia Bainotti