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Internet, il diritto… all’oblio

10/3/2017

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In un mondo che si muove sempre più attraverso Internet, è importante conoscere il diritto all’oblio e alla “dis-sociazione”. 
Il Tribunale di Milano si è pronunciato, con la sentenza 28 settembre 2016, n. 10374, sulla complessa questione (dibattuta di recente in particolare all'indomani di alcuni tragici episodi di cronaca) del diritto di ciascun soggetto a vedersi rappresentato per quello che è, nel suo divenire, con conseguente diritto all'eliminazione dei dati personali che lo riguardano, non più attuali, presenti in rete. A tal proposito, la giurisprudenza ha parlato di “diritto all'oblio” quale diritto della personalità a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino ormai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati (cfr. Trib. Roma Sez. I, 03/12/2015).
Il Tribunale di Milano, nella sentenza che ci occupa, ha qualificato il diritto della ricorrente non quale diritto della personalità bensì come diritto all'identità personale, segnatamente diritto alla “dis-sociazione” del proprio nome al risultato di ricerca.
Nel caso di specie, la ricorrente chiedeva al Tribunale di ordinare a Google Italy S.r.l. e a Google Inc. di provvedere alla deindicizzazione della URL rispetto alla ricerca con le chiavi recanti il nome dell'interessata nonché alla cancellazione delle “tracce digitali” della ricerca medesima. La ricorrente deduceva che sul quotidiano Il Giornale, nell'anno 2010, fosse stato pubblicato un articolo dal contenuto diffamatorio da cui emergevano mere opinioni del giornalista, inidonee a soddisfare l'interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni oggetto dell'articolo. Quest'ultimo, benché rimosso dall'archivio on line del quotidiano, era stato riproposto sul web in un blog ove il testo compariva a seguito di una ricerca su Google mediante digitazione di nome e cognome della ricorrente. Il Garante per la protezione dei dati personali rigettava il ricorso proposto, ritenendo sussistente un interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni contenute nell'articolo.
Il Tribunale di Milano accoglieva il ricorso, chiarendo che oggetto del giudizio fosse la lesione del diritto all'identità personale della ricorrente e ordinando al gestore la deindicizzazione della URL rispetto alla ricerca effettuata con le chiavi corrispondenti a nome e cognome dell'interessata.
Il Giudice milanese ha chiarito che l'attività di un motore di ricerca che consiste nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet deve essere qualificata come trattamento di dati personali qualora tali informazioni contengano, appunto, dati personali e che il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il responsabile del trattamento stesso. Inoltre, è stato evidenziato che, ai sensi degli artt. 12, lettera b), e 14, comma I, lettera a), della direttiva 95/46/CE, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall'elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata mediante inserimento del nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona. Il trattamento di dati personali è consentito, allorché necessario per il perseguimento dell'interesse legittimo del responsabile del trattamento oppure del terzo o dei terzi cui vengono comunicati i dati, a condizione che non prevalgano l'interesse o i diritti e le libertà fondamentali della persona interessata, con particolare riferimento al diritto al rispetto della vita privata. Infatti i diritti fondamentali della persona prevalgono, in linea di principio, non solo sull'interesse economico del gestore del motore di ricerca ma anche sull'interesse pubblico a trovare l'informazione cercata digitando il nome della persona. Tale regola, peraltro, incontra una deroga qualora risulti che, per ragioni particolari (come il ruolo ricoperto dalla persona nella vita pubblica), che l'ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall'interesse preponderante del pubblico ad avere accesso all'informazione di cui trattasi.
Nell'effettuare il bilanciamento fra gli interessi coinvolti, la pronuncia in esame ha opportunamente applicato i principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 13 maggio 2014, n. 131 (nota anche come sentenza “Costeja”), secondo cui il gestore di un motore di ricerca effettua un trattamento di cui è responsabile, ai sensi e per gli effetti della Direttiva 95/46/CE.
La sentenza in esame pone inoltre l'accento sull'importanza dell'attività svolta dal cosiddetto “Gruppo 29” (Article 29 Data Protection Working Party).
Il Gruppo è stato istituito dall'art. 29 della Direttiva 95/46, è un organismo consultivo e indipendente, composto da un rappresentante delle autorità di protezione dei dati personali designate da ciascuno Stato membro, dal GEPD (Garante europeo della protezione dei dati), nonché da un rappresentante della Commissione. Il presidente è eletto dal Gruppo al suo interno ed ha un mandato di due anni, rinnovabile una volta. Il Gruppo adotta le sue decisioni a maggioranza semplice dei rappresentanti delle autorità di controllo.
Con riferimento al “ruolo svolto nella vita pubblica”, il Gruppo ha evidenziato che tale concetto, non tassativo, è collegabile a quelli di “figura pubblica” e di “interesse pubblico”. Si tratta, quindi, della capacità della notizia di contribuire al dibattito pubblico su questioni di carattere generale, occupandosi appunto della “persona pubblica” e consentendo alla stampa l'attività libera di controllo garantito dalla società democratica.
 
A cura di Elisa Fea
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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