Se n’è parlato alla ricerca di un colpevole, di una qualche spiegazione, di una soluzione ad un fondamentalismo religioso, che forse di religioso non ha più nulla.
È un fanatismo violento, quello ostentato dal sedicente Stato islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), che agisce in parallelo ad altri gruppi terroristici organizzati, per seminare morte e terrore in ogni parte del mondo, il più delle volte senza suscitare lo stesso turbamento, lo stesso clamore dei fatti (pur sempre esecrabili) d’Oltralpe.
Dopo Parigi, incombe lo spettro di un nuovo attentato, ovunque e contro chiunque. Anche a casa nostra. Perché il terrorista è “meno straniero” di quanto si pensi: è il vicino, il ragazzino cresciuto nelle nostre vie e poi convertito ai dettami della “guerra santa”. Perché?
Abbiamo scelto di discuterne con l’On. Cécile Kyenge, già Ministro per l’Integrazione dello scorso Esecutivo, oggi europarlamentare.
On. Kyenge, dopo gli attacchi terroristici di Parigi, ha chiesto di non commettere gli stessi errori del dopo 11 settembre.
Sì, perché non possiamo dare una risposta di vendetta, reagire al terrorismo distruggendo con le bombe, generare nuove guerre, lasciando un mucchio di macerie alle nostre spalle.
Dobbiamo pensare piuttosto ad una risposta strategica, che coinvolga tutti. Niente fughe in avanti: nessun Paese deve agire in autonomia, ma tutti nell’ambito di una strategia comune e condivisa, sia europea che internazionale.
Cosa fare allora?
Per quanto riguarda le azioni immediate in Europa, occorre interrogarsi sugli aspetti che stanno alla base della radicalizzazione che porta i giovani ad aderire al fondamentalismo. Mi riferisco alle politiche nazionali di integrazione, all’uso di Internet - che per sua natura abbraccia qualunque classe sociale, senza distinzioni e senza confini nazionali - ma anche a luoghi come le prigioni, in cui i detenuti diventano facili prede in mano a predicatori senza controllo.
Oltre a questi ragionamenti, come già detto, servono degli strumenti di coordinamento e di integrazione che riguardino tutti i 28 Stati membri dell’UE. Per prima cosa, serve un nuovo meccanismo di intelligence, coordinato a livello europeo, per consentire agli Stati di scambiarsi agevolmente le informazioni: non è pensabile che il Belgio avesse delle informazioni che la Francia ignorasse!
Occorre poi una strategia estera comune, alla ricerca di una soluzione politica finale in Siria. A questo riguardo, ritengo che il dialogo per trovare la pace in quel Paese non possa escludere Assad, che pure è alla base del problema. Allo stesso modo, deve includere anche la Russia.
Serve, infine, un piano sulla ricostruzione post-conflitto, perché troppo spesso la situazione viene lasciata a se stessa, generando Stati di non-diritto, con i problemi molto gravi che ben conosciamo.
Fra i Paesi UE, la Francia è quello che “naturalizza” con più rapidità gli stranieri. Crede che ciò influisca sullo sviluppo di tensioni razziali e religiose, dalle rivolte nelle banlieue del 2005 alle ultime stragi islamiste?
Il problema non è la naturalizzazione, ma le politiche applicate dai Governi.
La naturalizzazione è uno strumento di integrazione molto potente, che deve essere gestito in maniera oculata da leader politici consapevoli e accompagnato da altre politiche che garantiscano la partecipazione attiva ed effettiva dei “nuovi cittadini”: non possono avere la cittadinanza sulla carta senza poterla esercitare nella quotidianità, perché non ne conoscono i diritti.
Sono sbagliate sia le politiche che isolano le persone dentro ghetti, come le banlieue, sia quelle che le assimilano alla cultura dominante; al contrario, devono applicarsi politiche di integrazione che favoriscano l’interazione, la buona convivenza, la coesione sociale, il sorgere di una mixité in cui le diversità non sono annullate ma diventano un valore aggiunto.
Da qui la riforma italiana sulla cittadinanza che stiamo portando avanti. Una riforma, passata recentemente alla Camera, che dice addio allo ius sanguinis [l’acquisizione della cittadinanza da quella dei genitori] e introduce uno ius soli [l’acquisizione della cittadinanza per nascita nel territorio di uno Stato] temperato, un potente strumento di integrazione di cui il nostro Paese non può più fare a meno.
Insomma, gli immigrati in Italia dovrebbero potersi integrare senza abbandonare la cultura d’origine, così da non covare risentimenti che fomentino microculture oppositive.
Esattamente. Il disagio e il rancore di un gruppo etnico nascono dove non si è saputo dare una risposta adeguata al fenomeno immigratorio.
Per garantire la convivenza pacifica e la mescolanza, serve riconoscere a tutti le pari opportunità: nessun trattamento differenziato a chi, ad esempio, è nato altrove. Ciascuno va trattato innanzitutto in quanto “persona”, un concetto bellissimo - già incluso nella nostra Costituzione del 1948! - che va oltre qualsiasi appartenenza o credo religioso.
Non dobbiamo avere paura delle culture di altri popoli, che anzi possono arricchirci. Non dobbiamo temere, perché abbiamo una base giuridica forte, fatta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo e dalle Costituzioni nazionali, tale da isolare e condannare comportamenti come l’omicidio, inaccettabili non solo per la nostra, ma per qualunque cultura.
Lei è l’esempio del cittadino extracomunitario che emerge nel Paese di accoglienza: da immigrata a Ministro italiano, oggi europarlamentare. Chi contribuisce di più a costruire il futuro dei migranti, chi arriva o chi ospita?
[Sorride] È una domanda difficile… Sono arrivata in Italia molti anni fa e credo che sia io sia il Paese che mi ha ospitato ne abbiamo tratto benefici. Tutti noi abbiamo qualcosa da offrire, è uno scambio reciproco.
Da un lato il migrante che lavora in Italia contribuisce economicamente allo sviluppo del Paese, dall’altro l’Italia gli dà l’opportunità di emergere. Non potrei dire chi contribuisce di più, chi meno.
Per questo è fondamentale uscire dalla logica del “noi o loro” che, contrapponendo i due gruppi, finisce col generare conflitti. Dobbiamo cominciare a parlare di “noi insieme” e di come possiamo dare, fra tutti, un contributo alla nostra società.
A cura di Francesca Vinai
Foto credits: Dante Farricella - Studioieffe