Questo litorale, poco conosciuto al di fuori della regione, è stata l’area che ha subito le conseguenze peggiori: oltre ai danni materiali sono morte due persone. Pellestrina è l’isola che si trova a sud del Lido di Venezia, una lunga striscia di terra che da sempre protegge la città lagunare contro le mareggiate.
Il litorale è difeso dai Murazzi, un’imponente diga in pietra costruita nel XVIII secolo. Nonostante i 12 metri di spessore e i 5 metri di altezza, durante l’alluvione del ’66 queste mura furono aperte in più punto.
Con l’acqua alta dello scorso novembre, invece, i Murazzi si sono trasformati in una vera e proprio trappola per i cittadini. L’ondata di marea, insieme alle raffiche di vento che soffiava a 100 km/h, ha causato un’onda anomala che, sorpassando le mura di Pellestrina, ha allagato completamente l’abitato. Complice il mal funzionamento delle pompe di emergenza, le mura hanno intrappolato l’acqua impedendone il deflusso al mare.
In men che non si dica le immagini dell’acqua alta eccezionale con quasi la totalità della laguna sommersa hanno fatto il giro del mondo e si è tornato a parlare del MO.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico). Si tratta del sistema di dighe a scomparsa, attualmente in fase di ultimazione, costruito sulle tre bocche di porto lagunari.
L’opera è composta da enormi schiere di paratoie cave autosommergibili incernierate sul fondale marino che, all’occorrenza, vengono alzate per bloccare le ondate di acqua alta. Il meccanismo funziona attraverso l’immissione di aria nelle paratoie che ne permette il galleggiamento, portandole verso l’alto, e l’immissione di acqua per farle tornare sul fondo. Essendo composto di ben 78 paratoie comandate singolarmente, suddivise sulle tre bocche d’accesso che lavorano in maniera indipendente, il sistema risulta essere molto flessibile.
Il progetto del MO.S.E., nato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, è stato presentato in via definitiva nel 2002, ottenendo il via ai lavori l’anno successivo. Con un costo iniziale stimato di 3.200 miliardi di lire, i primi finanziamenti del 2002 hanno visto lo stanziamento di 450 milioni di euro.
Nel 2013 la somma era già salita a 4.987 milioni di euro e, l’anno successivo con i lavori giunti ormai al 90%, la spesa raggiunta era di 5.493 milioni di euro. Tra scandali sulle tangenti, proteste, stop ai lavori e riprese, siamo giunto al 2019 con un’opera colossale dal costo esorbitante che ancora non funziona.
Vista l’urgenza della situazione, a inizio dicembre sono stati effettuati dei test sul funzionamento delle paratoie di Punta Sabbioni. Durante l’innalzamento è andato tutto bene, ma nella fase di abbassamento cinque barriere sono rimaste bloccate. La causa? Il deposito di detriti venutosi a creare durante la fase di elevazione che ne ha impedito la chiusura.
Le paratoie, di fatto, sono casse di metallo larghe 20 metri, alte dai 18 ai 30 metri e spesse fino a 5 metri che, salendo, causano uno spostamento d’acqua tale da risucchiare detriti e sabbia. Così, una squadra di sub, coadiuvata da due gru, è dovuta scendere per fare “pulizia”. Resta quindi il dubbio che, una volta ultimato, il MO.S.E. non sia in grado di difendere la laguna a dovere.
Progettato quasi 30 anni fa per porre rimedio all’acqua alta a partire dai 110 cm, il sistema era stato pensato quando a Venezia l‘acqua alta non erano all’ordine del giorno. Con le variazioni attuali del livello del mare, le aperture/chiusure delle barriere sarebbero di gran lunga più numerose rispetto a quanto previsto in fase di progettazione. Il dubbio è che il sistema non sia in grado di reggere un’operatività così sostenuta.
Inoltre, tra le obiezioni maggiormente sollevate contro il MO.S.E. ci sono i costi di realizzazione, gestione e manutenzione dell’opera. Passati i primi tre anni dalla realizzazione, le spese per il funzionamento ricadrebbero interamente sugli enti locali.
Sul lato ambientale, invece, le critiche mosse riguardano i lavori di livellamento e mantenimento del fondale nei pressi delle bocche, dove si trovano le paratoie ancorate al suolo da migliaia di pali in cemento armato. A questo si aggiunge il mancato ricambio d’acqua che, teoricamente, dovrebbe comportare un problema solo durante l’innalzamento delle barriere.