Il dibattito che sta interessando attualmente la dottrina è quello su produttività e lavoro, con particolare riferimento alla posizione dei lavoratori. Salario minino e riduzione dell’orario lavorativo sono i temi maggiormente al centro della discussione, anche se con diverse accezioni, per giustificare la necessità di interventi normativi mirati. A cura di Rosario De Luca |
Con la pandemia, la questione giovanile ha assunto nel nostro Paese contorni ancora più critici che altrove. I giovani sono quelli su cui sono ricaduti i principali effetti della crisi occupazionale (il 58% dei lavori persi hanno riguardato gli under 35 anni).
Dal 2011 abbiamo perso quasi 2 milioni di occupati con meno di 40 anni. L’Italia, infatti, è il Paese con la più bassa percentuale di occupati al di sotto di questa età (32% contro media europea del 41%). La crisi ha ulteriormente penalizzato la generazione degli attuali 15-24enni, ribattezzandoli “Pandemials”: ovvero coloro che da giovani hanno vissuto già due crisi, quella finanziaria del 2008 e questa pandemica, tali da impattare fortemente sulle loro prospettive di vita e lavoro.
In particolare, la crisi ha bloccato gli accessi al lavoro per più di un anno e penalizzato la formazione in ingresso nelle aziende; danneggiato i percorsi formativi, incrementando con la didattica a distanza, l’educational disparity nell’accesso alla formazio-ne (adeguatezza delle infrastrutture, territori, condizioni familiari, offerta didattica e capacità dei docenti). Ma anche allontanato ancora di più i giovani dalla formazione e dal lavoro, accentuando un sentimento di disaffezione verso il presente e soprattutto il futuro, che rischia di avere ricadute drammatiche in termini economici, sociali e demografici.
Durante la crisi, la quota di NEET, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione, è passata dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020. Riepilogando, quindi, le principali criticità italiane, possiamo senza dubbio evidenziare il forte mismatch tra domanda e offerta di lavoro: un problema strutturale che rischia di bloccare i segnali di ripresa. Nel secondo trimestre 2021, nell’industria e nei servizi, il numero di posti vacanti supera la soglia di 233.500 persone.
Il Censis ha recentemente stimato che il mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro genera un costo annuo di 21 miliardi, pari all’1,2% del PIL. A seguire, la scarsa offerta di formazione tecnica, soprattutto in ambito terziario. Negli anni gli istituti tecnici hanno perso qualità della didattica e appeal nei confronti dei giovani. All’estero, tra istituti tecnologici e università, la formazione triennale di tipo tecnico, costituisce un pilastro dell’offerta formativa e un efficace canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
Da noi, di contro, questa è nulla o poco sviluppata, non riuscendo a soddisfare i bisogni espressi dalle aziende. Basti pensare che su tutto il territorio nazionale ci sono soltanto 116 Istituti tecnici superiori, che possono contare su circa 18 mila studenti ogni anno. Il PNRR promette di intervenire su questo fronte stanziando 1,5 mld di euro, con la previsione di raddoppiare entro il 2026 il numero degli iscritti, arrivando a 40.000, e di riformare gli Istituti per formare quei tecnici che sempre più sono richiesti nelle imprese italiane. Quest’ultimo fattore costituisce un forte limite al sistema.
L’ultimo bollettino Excelsior-Unioncamere, relativo al mese di gennaio 2022, segnala come le figure più difficili da reperire sul mercato siano proprio quelle tecniche (46,4% considerate di difficile reperimento), con in testa i tecnici informatici e delle telecomunicazioni (68,1% considerati introvabili).
Altro fattore da considerare sono le basse retribuzioni in ingresso dei giovani, che risentono di un problema più complessivo del mercato del lavoro italiano. A monte c’è infatti un problema di qualità della domanda di lavoro (richiesta di profili a bassa qualificazione, quindi retribuzioni mediamente più basse), ma anche una scarsa mobilità all’interno del mercato (un mercato poco mobile favorisce l’appiattimento delle retribuzioni), un’elevata incidenza di contratti flessibili, soprattutto tra giovani, che penalizza il loro potere contrattuale e, infine, un costo del lavoro molto alto.
Nel dettaglio, per quanto riguarda le retribuzioni dei laureati, secondo il Rapporto AlmaLaurea, la “paga” mensile netta a un anno dal conseguimento del titolo è, in media, pari a 1.270 euro per i laureati di primo livello e a 1.364 euro per i laureati di secondo livello. Anche l’ingresso tardivo dei giovani italiani nel mercato del lavoro costituisce un elemento di penalizzazione, perché ritarda l’avvio dei percorsi professionali, ma anche e soprattutto la messa a fuoco degli stessi iter. Malgrado negli ultimi anni sia stata migliorata l’alternanza scuola-lavoro, l’esperienza lavorativa nel nostro Paese continua ad essere sostanzialmente successiva e non integrata a quella formativa. E anche i contratti “ponte”, come l’apprendistato, non funzionano come dovrebbero.
Non va poi dimenticato che il diffuso e molto generoso sistema di sussidi, promosso dagli ultimi governi, ha disincentivato molti giovani dalla ricerca attiva di un lavoro. Per analizzare il tema produttività-lavoro non si possono, dunque, valutare soltanto l’orario e il salario minimo dei lavoratori, ma vanno tenuti in debita considerazione anche gli aspetti legati all’impatto aziendale di queste variazioni. E ancor di più alle criticità strutturali del sistema italiano, che impediscono un serio sviluppo dell’occupazione giovanile.