In un mondo in costante movimento, perennemente alla ricerca di nuovi equilibri, anche il diritto penale non si sottrae alle spinte del cambiamento. Si tratta di un'affermazione che potrebbe sembrare ardita e distante dalla (apparente) fissità di un codice penale che, dall'alto dei suoi quasi 85 anni di storia (il vigente codice è stato approvato nel 1930), parrebbe rappresentare l'emblema della staticità. |
In alcuni casi, è il Legislatore a farsi promotore del "nuovo", sovente spronato dalla necessità di dar seguito agli impegni assunti dal nostro Paese in ambito sovranazionale; in altri, le sfide della modernità vengono raccolte ed interpretate dalla Magistratura, in quella costante opera di adeguamento del diritto alla prassi, che costituisce l'anima propulsiva e pulsante del c.d. diritto vivente.
Ed è così che, solo per citare qualche esempio, dal 2001, con il decreto legislativo n. 231, nelle aule di giustizia possiamo trovare al banco degli imputati anche le persone giuridiche (società, associazioni, ecc.), per rispondere del mancato impedimento di reati commessi, nel loro interesse o a loro vantaggio, dai propri vertici o dai relativi sottoposti, con buona pace del (vecchio) diritto penale riservato solo alle persone "in carne ed ossa", oltre che di un paio di secoli di tradizione penalistica, almeno nostrana.
Sulla stessa linea d'onda (orientata ad ottimizzare l'effetto disincentivante e prevenzionistico della minaccia della pena) si colloca il riassetto della disciplina del diritto penale del lavoro (T.U. 81/2008), che pone sempre più in risalto la centralità della figura del datore quale insostituibile promotore di una tutela ad ampio raggio del lavoratore, che giunge ad abbracciare rischi un tempo (nemmeno troppo lontano) estranei al paradigma classico della "sicurezza" nei luoghi di lavoro (si pensi al c.d. rischio stress-lavoro correlato, al rischio-rapina, ecc.).
Ed ancora, si ponga mente all'intervento del recente Legislatore rispetto ai reati contro la pubblica amministrazione (con la c.d. Legge Severino, che, tra l'altro, ha ridisegnato la figura della concussione ed ha introdotto il reato di corruzione tra privati); alla riforma della c.d. colpa medica (attuata con la comunemente nota Legge Balduzzi, che ha tentato di circoscrivere l'ambito della colpa penalmente rilevante rispetto all'attività sanitaria alla sola colpa grave, allorché vegano rispettate le linee guida cui deve orientarsi l'operato del medico), nonché alla c.d. legge sul "femminicidio" (L. 119/2013).
Sul fronte giurisprudenziale, le recenti pronunce della Suprema Corte sul caso Thyssen e sul caso Eternit (con tutte le discussioni che si sono portate appresso), costituiscono il "termometro" delle tensioni che percorrono le aule di giustizia, pervase dalla difficoltà di adattare gli schemi astratti del diritto alla multiforme (e mai uguale a se stessa) realtà cui questo si rivolge.
Si badi: si tratta di una tensione che caratterizza non solo i processi più "eclatanti", ma anche quelli volti ad accertare le responsabilità per fatti di ordinaria "illegalità".
Ed è qui che lo sguardo alle mutazioni del diritto penale tocca un tema che interessa necessariamente tutti: sono i fatti di "ordinaria illegalità" a rendere irrequieto il "vecchio" diritto penale, spingendolo a solcare, con strumenti nuovi, terreni più volte percorsi dalle riflessioni degli studiosi e dei pratici. Sono le quotidiane violazioni delle (più elementari) regole del vivere civile ad insidiare maggiormente, con la loro pervasività ed ambiguità, la complessità delle sfide che giornalmente ci troviamo a giocare.
Nessuno, infatti, può dubitare che una rapina sia un fatto gravissimo ed intollerabile; tutti saremmo pronti a schierarci al fianco della vittima di un omicidio volontario. Ma quanti sarebbero pronti a condannare, con altrettanta forza e platealità, i "piccoli" abusi di potere, le "piccole" violenze morali, le "piccole" violazioni delle regole di sicurezza sul lavoro, l'inadeguatezza professionale? Ed è in questo ambiguo terreno, fatto di compiacente omertà (non di rado accettata e subita), che affondano agevolmente le radici di una pianta difficile da estirpare: la "cultura dell'indifferenza", del "lasciar correre", che, al suo germogliare, può accogliere i più noti episodi di cronaca giudiziaria, verso cui si dirigono gli interventi riformatori del Legislatore e l'interpretazione adeguatrice della Magistratura.
Ed è guardando a questi fatti di "ordinaria illegalità" che si può coglie, a mio avviso, l'elemento unificante delle riforme che hanno recentemente interessato il diritto penale (di cui se ne sono ricordate solo alcune): la volontà di creare una "cultura della legalità".
In quest'ottica si può cogliere, ad esempio, la richiesta (certamente perfettibile!) di coinvolgere anche le persone giuridiche nel contrasto al reato; l'importanza attribuita alla auto-gestione del rischio-infortuni ed alla formazione/informazione in ambito prevenzionistico; l'ammodernamento dei reati contro la pubblica amministrazione e l'ampliamento della nozione di corruzione; il tentativo di disinnescare (quantomeno sul terreno del diritto penale) una pericolosa contrapposizione medico/assistito in favore di una maggior serenità di dialogo e di un maggiore coinvolgimento reciproco sul terreno dell'alleanza terapeutica; il rinnovato (quantomeno sul terreno dei messaggi culturali) contrasto alla violenza di genere.
Il pericolo, peraltro, è evidente: la proliferazione delle novità normative (non di rado accompagnate dall'aumento della pena minacciata) rischia di ripercorrere l'esempio delle "grida" di manzoniana memoria, con inevitabili ricadute in termini di complessificazione di un tessuto normativo già saturo e difficilmente maneggiabile.
Quale rimedio, dunque? Ridurre le spinte al cambiamento? Rassegnarci ad una "complessità delle regole" inutilmente destinata ad aumentare?
La soluzione potrebbe essere più semplice (non semplicistica!): accogliere, con consapevole saggezza, le motivazioni che stanno al fondo delle spinte al cambiamento sopra ricordate e farci promotori di una rinnovata cultura della legalità, del rispetto delle regole del vivere civile, a cominciare da quelle più "semplici" e "quotidiane", perché si possa finalmente attuare l'obbiettivo (oltremodo desiderabile) di cui si fece promotore Cesare Beccaria due secoli e mezzo fa:"Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle" (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764).
A cura di Maurizio Riverditi