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I love sport, I love volley

3/3/2015

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Una palla che deve cadere, sei giocatori da una parte della rete e sei dall’altra. Il gioco della pallavolo è tutto qui. 
Detto ciò, la cosa più importante che precede le partite e forma la squadra è l’allenamento. L’allenamento è sacrificio, è impegno, è una forma mentis. 
All’allenamento nessuno può sottrarsi, nemmeno il fenomeno. Quest'anno forse molti di voi avranno seguito i mondiali, o almeno quello della nostra Nazionale femminile che si è distinta regalandoci attimi di vero godimento, anche se i risultati non sono stati quelli auspicati nonché previsti dato il così buon inizio. Ma si sa, il gioco è fatto per vincere - e non ditemi che l’importante è partecipare perché questa è solo una storiella, forse adatta ai bambini - e della sconfitta rimane sempre l’amarezza. Poi è chiaro che ad un vincitore si contrappone uno sconfitto, o più sconfitti, e non uso la parola “perdente” volutamente, onde evitare lo sconfinamento in altre accezioni del termine. Ma è il modo in cui si è sconfitti a fare la differenza. Nel gioco devi vendere cara la pelle: è la differenza tra perdere con onore o meno, tra l’essere sconfitti per quel pizzico in più di bravura altrui piuttosto che per incapacità propria, tra la preparazione, esperienza e l’imprecisione, l’inadeguatezza e l’inefficienza.
È per questo che l'allenamento è la fase più importante, dove si allenano corpo e mente al raggiungimento di un traguardo. La mente nella pallavolo è un elemento fondamentale che viene prima di tutto, perché la pallavolo è uno sport che, contrariamente a quanto si pensa, va giocato prima di testa, poi di gambe e in ultimo con le mani. La lucidità di scegliere qual’è il posto migliore dove battere o attaccare, la freddezza di riconoscere e sfruttare il punto debole dell’avversario. In caso di vantaggio si deve mantenere la concentrazione senza distrazioni, perché anche il minimo errore potrebbe mettere in condizione la squadra avversaria di prendere fiducia e consapevolezza nella rimonta. Se si è in svantaggio è richiesta maggiore presenza di spirito e di concentrazione, perché punto dopo punto la squadra che la rete divide si avvicina alla vittoria, segnando il tuo allontanamento da essa. È un continuo gioco psicologico, al quale si fa appello per portare a casa una vittoria. 
Arriviamo così alle gambe, in assoluto la parte del corpo più allenata dei pallavolisti: devono essere scattanti, agili e rispondere in maniera immediata all’impulso del cervello. Si tratta di piccoli movimenti rapidi che avvengono quando la palla è in volo nel caso di una battuta avversaria, di piccoli movimenti lesti e laterali quando l’alzatore avversario palleggia ed il muro contrapposto deve fare il suo dovere, di piccoli passi rapidi ed improvvisamente bloccati al terzo passo per saltare più in alto che puoi e attaccare una palla nel migliore dei modi per segnare l’agognato punto. 
Da qui subentrano le mani e le braccia, che devono essere ben ferme in difesa e ricezione (per creare il piano di rimbalzo ideale affinché la palla vada dritta nelle mani dell’alzatore che smisterà il gioco) e mobili e veloci nella fase di attacco, perché la forza non c’entra, è la velocità che fa un attacco potente, tanto com’è la capacità di chiudere e girare il polso che fa la differenza e dà la direzione all’attacco. 
Fin qui tutto bene, la tecnica si apprende con l’allenamento e si affina nel tempo, come il fisico si forma e la mente si allena. Ma questo è un gioco di squadra. 
Per spiegarci meglio, citiamo le parole di uno dei più grandi allenatori e dirigenti sportivi che allenò anche la Nazionale Italiana maschile, chiamata la “generazione di fenomeni”, tra cui svettavano i nomi di Lucchetta, Bernardi, Vullo, Zorzi, Giani, Tofoli, Gravina. Grazie a lui si collezionarono dal 1989 al 1996 ben tre medaglie d’oro ai campionati europei, due mondiali e cinque vittorie in World League: il suo nome è Julio Velasco. 
“La cosa per me fondamentale è avere chiara la differenza tra gruppo e squadra. Molto spesso si confondono queste idee, si dice il gruppo è buono, funziona quindi vinceremo. Non è vero. La differenza fondamentale è che nella squadra c'è un obiettivo chiaro, un modo di giocare consapevole ma soprattutto ci sono dei ruoli. E quei ruoli stabiliti devono essere accettati. Se io faccio una squadra in cui chiamo come riserva giocatori che vogliono fare i titolari, sarà molto facile avere problemi perché il ruolo non è chiaro. Nel mondo dello sport il ruolo all’interno della squadra è scontato, si conosce. 
L’idea dello spirito di squadra non è essere solidali, non è semplicemente tirare dalla stessa parte. Una volta sono arrivato in un'azienda e c'era come poster il tiro alla fune:  questa è l’idea di squadra in cui tutti trainano dalla stessa parte, ma il tiro alla fune è una squadra povera. Il gioco di squadra significa gioco dei ruoli e il rapporto tra questi: io sono molto bravo a fare una cosa e accanto a me gioca un giocatore che è bravo a fare un'altra cosa ed insieme ci supportiamo e la cosa funziona. È un metodo di lavoro e ha le sue regole, deve essere consapevole. Noi dobbiamo sapere come vogliamo giocare:  quando qualcosa non funziona nel gioco cerchiamo i problemi o cerchiamo i colpevoli? Se c'è questo modo di giocare stabilito chiaramente, allora l'errore sarà parte del processo di apprendimento e non un esempio di colpevolezza. Se riusciamo a creare questi meccanismi dell’obiettivo e formare le persone per quello scopo, allora cominciamo ad avere una struttura per poter vincere”.

A cura di Manuela Oliverio
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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