Ora che conosciamo la sua definizione, dovremmo porci un’altra domanda: siamo davvero soggetti a questa “malattia”? Sinceramente non credo. Sì, i giovani di oggi stanno dietro alla moda, comprano i vestiti non solo in base alla loro comodità o resistenza, ma soprattutto in base alle star che li hanno indossati e che li pubblicizzano. Inoltre, tra di loro ritengono “fortunato” chi ha tante cose, chi viene accontentato dai suoi genitori in ogni sua richiesta, chi, insomma, possiede più degli altri.
Tuttavia, non si può generalizzare e non si può identificare la nostra generazione come un gruppo di ragazzi superficiali che passano le loro giornate al cellulare o nei negozi di abbigliamento: anche in questa generazione ci sono ragazzi di sani principi, ragazzi che non sognano di sfondare in tv sedendosi su un trono, ma che studiano per assicurarsi un futuro basato sul lavoro e sulla famiglia, principi sui quali poggia la nostra Costituzione.
Per quanto riguarda la parte di giovani vittime del consumismo, c’è da dire che questa è continuamente influenzata e spronata dalla pubblicità, non solo televisiva ma propria di qualsiasi mezzo di comunicazione, che invita i giovani a comprare ogni tipo di cosa, magari promettendo loro miracoli ed effetti straordinari e quasi mai ottenuti: così questi ragazzi vestono tutti nello stesso modo, ascoltano tutti la stessa musica, frequentano tutti gli stessi locali ed hanno tutti gli stessi interessi.
Colpa loro? Non sempre e non necessariamente. Perché in fondo diciamocelo: chi di noi può permettersi di d’identificare la propria felicità con l’acquisto e con il consumo? Forse pochi lo possono fare, e quindi è necessario andare più a fondo per analizzare il fenomeno consumistico tra i giovani d’oggi: tutti sappiamo come a volte alcuni ragazzi vengano emarginati perché non facenti parte del “gregge”, ovvero perché non possiedono abiti all’ultima moda o non sono aggiornati sugli ultimi avvenimenti mondani o, peggio, perché si dedicano troppo allo studio. In questi casi, l’acquistare diventa un modo per integrarsi, un modo per essere considerati una “pecora” come tutte le altre, anche se in realtà è solo l’inizio di una pseudo-malattia: non è certo omologandosi a tutti gli altri che si viene accettati e non è venendo accettati che si è migliori, perché non si è stati accettati per come siamo ma per cosa abbiamo acquistato.
D’altra parte, nell’epoca dei computer e dei cellulari, in un periodo dove il terrorismo minaccia la stabilità della salute mondiale, tutti vorremmo avere delle certezze e tutti cerchiamo conferme nella società, non importa che questa ci voglia tutti uguali e quale sia il costo di tale sicurezza. Con questo non intendo certamente giustificare il consumismo, ma neanche biasimare del tutto le sue vittime: in un mondo dove la sicurezza è data dall’essere tutti uguali, chi vorrebbe fare l’originale e vivere nell’instabilità? Sinceramente nessuno.
In conclusione, quindi, il consumismo pervade la nostra società dal secondo dopoguerra e da tempo è dunque espressione della classe borghese dominante: niente di nuovo influenza la nostra generazione e coloro che considerano noi giovani un gruppo di superficiali non possono che ammettere che non abbiamo creato il mondo in cui viviamo ma, al massimo, possiamo cercare di migliorarlo.
A cura di Martina Peruffo