Gente che si reca al lavoro con cinque o sei badge a testa, li inserisce nella bollatrice e poi va a fare canottaggio, chi percepisce la pensione per non vedenti e poi guida la macchina, artisti dell’infortunio simulato, corruttori e corrotti che tranquillamente scambiano bustarelle negli uffici pubblici e via rattristando, non possono far parte di un popolo di soli santi, poeti e navigatori. Non è possibile. Non è giusto.
Ma la considerazione più evidente è che, anche quando ci si autoconvince di aver visto tutto e di essere arrivati al fondo, capita regolarmente qualcosa di nuovo, qualcosa di inaspettato, qualcosa che esalta ancora di più le caratteristiche indubbiamente uniche degli italiani.
Si chiama “Gnammo” ed è la novità del momento, pubblicitaria ma non solo, alimentare ma non solo, inequivocabilmente “social” ma non solo, profondamente preoccupante ma non solo.
Innanzitutto, bisogna precisare che Gnammo è una comunità, i cui membri, denominati ovviamente “gnammers”, organizzano nelle loro abitazioni private degli eventi appartenenti al cosiddetto social eating: viene selezionata una data precisa, la si pubblicizza via Internet, si rende noto il menù della serata, si stabilisce il costo e poi si ricevono le prenotazioni fino al numero di posti disponibili.
Consultando il codice etico disponibile in versione bozza sul sito omonimo, leggiamo alcune interessanti definizioni, che ci spiegano come con il termine home restaurant si individua un ristorante che è una casa di civile abitazione, nella quale si organizzano eventi abitualmente, con strumenti professionali o con organizzazione imprenditoriale.
Ancora più interessante è il termine social eating, che individua un evento organizzato in una location che è una casa di civile abitazione, con carattere occasionale, senza strumenti professionali e senza organizzazione imprenditoriale.
Poiché questo della ristorazione in casa è un fatto attuale e non trascurabile, i Carabinieri NAS hanno già effettuato alcuni sopralluoghi ed irrogato sanzioni amministrative, in seguito alle quali sono nati anche eventi di social eating segreti, a cui ci si iscrive senza sapere il luogo e l’ora del convivio, fino a poche ore prima dell’inizio.
La Regione Piemonte ha inviato un’interrogazione al Ministero, per sapere quale linea di condotta andrà adottata in sede di controllo, poiché risulta del tutto evidente che si tratta di attività di ristorazione a tutti gli effetti, effettuata però da privati all’oscuro della vigente normativa alimentare, che utilizzano materie prime non inserite in percorsi predefiniti di tracciabilità e che percepiscono un compenso del tutto al di fuori della legalità fiscale, non essendo accompagnato da fatture o ricevute, trattandosi di attività occasionali.
Da quando la crisi economica ha cominciato a farsi sentire, ma anche in tempi precedenti, si era già assistito a vari tentativi di semplificare l’accesso all’imprenditoria personale, probabilmente finalizzati a creare nuove prospettive per chi si era trovato senza più un lavoro, ma purtroppo gestiti con un grado forse troppo elevato di superficialità ed approssimazione.
Gnammo e gli altri focus di interesse, ormai sparsi per tutto il Bel Paese dove spopola il social eating, sono forse la più recente ed innovativa esemplificazione pratica di come basti pochissimo, nell’era digitale della connessione globale, affinché persone imprenditorialmente molto talentuose, ma professionalmente molto sprovvedute, si lancino in attività che qualunque buon senso pratico indurrebbe a scansare accuratamente.
È evidente che gli gnammers, organizzatori degli eventi, sono del tutto ignari della vigente normativa nazionale e comunitaria sulla ristorazione, ma soprattutto, scorrendo il blog disponibile nel sito, del potenziale impatto che attività di vera e propria ristorazione possono avere per la salute di chi prenota la propria partecipazione, soprattutto nel caso di tossinfezioni alimentari provocate da manipolazioni errate delle derrate o dall’utilizzo, seppure in buona fede, di materie prime non adeguate e conformi.
Tralasciamo per un attimo il problema fiscale, peraltro non irrilevante, ma consideriamo soltanto le ricadute in termini di responsabilità, che questi organizzatori di eventi casalinghi più o meno inconsciamente si caricano addosso, senza peraltro essere dotati, come potrebbe essere un comune ristorante, di un sistema di autocontrollo documentato, utilizzabile per tentare di difendersi in caso di sinistro.
La speranza è quella che il Ministero abbia la fermezza di impedire la proliferazione di queste aberrazioni imprenditoriali, poiché la microimprenditoria d’assalto non è certo un’invenzione o una prerogativa di Gnammo e soci, ma grande è quindi la distanza che separa il social eating da tutte le forme di ristorazione regolarmente autorizzate, che sono assoggettate a regole molto precise, dall’HACCP alla tracciabilità delle merci, dalla sicurezza del lavoro all’antincendio, dall’igiene dei locali alla retribuzione del personale, mentre tutte le location dedicate alla microristorazione casalinga altro non sono che case di civile abitazione, prive di qualunque forma di controllo e vigilanza specifica.
Passi quindi i poeti, passi i santi e vada per i navigatori, ma oggettivamente si comincia a sentire la necessità collettiva di una stretta sull’imprenditoria d’assalto, senza regole e senza limiti, da un lato per il rispetto che sempre andrebbe attribuito al consumatore ignaro e credulone e, dall’altro, per il rispetto non inferiore che andrebbe attribuito a chi le leggi le rispetta e deve confrontarsi quotidianamente con regole a valanga, costi elevati, controlli e sanzioni sempre in agguato dietro l’angolo.
A cura di Ferruccio Marello