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Euro, pro o contro?

3/8/2015

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I problemi di Grecia, Cipro, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, e in parte Francia e Slovenia, sono legati ad una perdita di competitività per l’introduzione del sistema monetario europeo/Ecu, ben prima dell’introduzione dell’euro.
La sua immissione non ha fatto altro che incentivare la violazione dei patti da parte dei Paesi oggi in crisi.
Sono state infatti adottate politiche falsamente keynesiane quali: la moltiplicazione dei centri di spesa pubblica, caste private protette, giustizia lenta, sistema bancario clientelare politicizzato, sistema economico troppo dipendente dalle banche etc.
Nel caso di Italia, Grecia e in parte Portogallo, l’economia si è concentrata sulla spesa pubblica e su privilegi pubblici e privati, con la risultante che ad un settore privato in costante declino corrispondeva sì un maggiore peso dello Stato nell’economia, ma uno Stato di tipo totalmente inefficiente.
Qui, le imprese non amano consorziarsi nè aggregarsi, anche a causa dell’incertezza giuridica; un forte ostacolo dunque all’incremento salariale e ad un trasferimento dei poteri dal sindacato al lavoratore all’interno delle società.
In altri Paesi europei, i lavoratori sono soci e hanno un peso nelle decisioni aziendali, e godono di uno stretto legame tra utili e salari. Le basse dinamiche salariali nei paesi in crisi non incentivano la creatività, nè l’impegno. Perché una terapia esclusivamente keynesiana sarebbe controproducente?
La risposta è “semplice”: se assumiamo l’ipotesi che l’Italia resti nell’eurozona, allora non si può permettere che il costo della vita in Italia, che ha già raggiunto i livelli tedeschi, raggiunga livelli austriaci. La sopravvivenza dell’euro non è compatibile con una crescita fondata su incrementi salariali fini a se stessi nei “crisis countres” (Gipsy), in quanto un incremento del consumo - cui non corrisponde incremento di risparmio proporzionale - implica un maggiore indebitamento pubblico (ma anche privato) e una maggiore inflazione. Politiche keynesiane possono funzionare soltanto se vengono concepite nell’accezione originaria del termine: servono a stimolare investimenti privati produttivi; occorrono riforme strutturali capaci di trasformare le politiche keynesiane in una risorsa piuttosto che in un boomerang.
La crisi dei consumi nei crisis countries nasce da una crisi della produzione. L’austerità fine a se stessa ha raggiunto l’unico scopo di abbattere i deficit, ha eretto un argine alla folle crescita del debito, ma ha causato un aggravamento della crisi già in procinto di esplodere.
Caso a sé è la Grecia, in cui il deficit fu azzerato nel 2013, ma il debito ha continuato a impennarsi a causa della contrazione severa del Pil negli anni antecedenti.
Un caso indicativo della mancanza di lungimiranza, di cui la Grecia è prima responsabile dato che si rifiuta di adottare riforme basilari, perdendo così l’accesso agli investimenti pubblici europei.
Il sentiero per gli altri crisis countries è stretto, poiché non possiamo elargire soldi che non esistono e che nessuno ci presta, mentre non possiamo nemmeno continuare in un percorso di crescita lenta, che impiegherà molti anni prima di costituire benessere soddisfacente nelle società. L’opzione B è rappresentata invece dall’uscita dall’euro, che però costringerebbe nuovamente ad una ancora più severa austerità di bilancio e ad una radicale rivoluzione riformatrice per reagire alla depressione che incomberebbe, fino a rivedere una luce fioca in fondo al tunnel dopo molti anni. Sostanzialmente, non esiste possibilità concreta per i crisis countries di ritornare agli schemi del passato, ai tempi delle illusioni: quei tempi sono finiti.

a cura di Vinicio Paselli
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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