Così scriveva negli anni Settanta Elena Gianini Belotti nel suo libro “Dalla parte delle bambine”, riferendosi allo sforzo dei genitori - e della società nel suo complesso - nell’indirizzare le bambine e i bambini ad adempiere al ruolo di donne e uomini che sarebbero diventati.
Osservando le relazioni tra genitori e figli l’autrice nota che gli insegnamenti rivolti alle bambine tendevano a sviluppare in esse caratteristiche quali la mansuetudine, la dolcezza, la civetteria.
Dai ragazzi ci si aspettava invece che fossero indipendenti, energici, espansivi e finanche audaci.
Nelle scienze sociali si parla di “socializzazione al genere” per indicare il costante processo di trasmissione e apprendimento di conoscenze e di modelli di comportamento che portano a sviluppare le identità maschili e femminili.
La famiglia gioca un ruolo fondamentale in tale processo: è proprio nelle e attraverso le relazioni familiari che i bambini imparano quali sono i comportamenti ritenuti più adatti a ciascun sesso e che cosa ci si aspetta da un maschietto o da una femminuccia.
La famiglia agisce di concerto con altri attori, tra cui la scuola, i gruppi di compagni e di amici che si frequentano, i messaggi e le immagini che arrivano dalla televisione, dalle riviste e dai social network.
Oggi le cose sembrano essere cambiate rispetto a quando Gianini Belotti teneva le parti delle bambine, che considerava svantaggiate dal processo di socializzazione, incanalate com’erano nel “rigido busto” della femminilità.
Tanto per cominciare, i corsi di vita di uomini e donne si sono notevolmente avvicinati ed entrambi condividono pressoché le stesse esperienze, tanto nel mondo dell’istruzione quanto nel mercato del lavoro. Nella famiglia i rapporti sono poi molto più paritari, sia tra i coniugi, sia tra genitori e figli.
Sembra quindi anacronistico pensare che ci siano ancora delle differenze all’interno della famiglia nel modo di relazionarsi con i figli e nella loro educazione e si ritrovano in una società che non offre più, come in passato, dei ruoli differenti e ben definiti per uomini e donne. Ma è davvero così?
A più di trent’anni di distanza, Loredana Lipperini - nel libro “Ancora dalla parte delle bambine” - fa eco alle parole di Gianini Belotti, denunciando l’educazione asimmetrica che ricevono le ragazze rispetto ai ragazzi: “anche se non si usano più i grembiulini è ancora rosa il mondo delle bambine”, sostiene.
Questo significa che, ancora una volta, sono forti le pressioni nei confronti delle bambine ad adeguarsi a dei modelli di femminilità tradizionali e stereotipati, che puntano sullo sviluppo della dimensione della cura: vuoi della casa e della famiglia, vuoi della propria bellezza e del proprio aspetto fisico.
E in effetti alcune ricerche condotte in ambito sociologico e psicologico negli ultimi anni mostrano che la famiglia continua a configurarsi, ancora, come un ambiente in cui si educa a diventare uomini e donne seguendo concezioni stereotipate dei rapporti tra i sessi.
Si può dire, più precisamente, che permangono dei residui della tradizione nei modelli di femminilità e maschilità che vengono proposti.
Nella ricerca coordinata da Garelli, Palmonari e Sciolla e descritta nel volume “La socializzazione flessibile” si può vedere come tali residui emergano chiaramente negli insegnamenti e nelle regole che i genitori rivolgono ai figli.
Si assiste infatti alla presenza di due sistemi normativi molto diversi tra loro.
Le norme che i genitori stabiliscono per i figli maschi hanno a che fare con il rispetto degli impegni presi, la gestione del denaro e il rispetto per l’autorità genitoriale.
Alle ragazze, invece, viene chiesto innanzitutto di rispettare gli orari delle uscite, di rendere conto delle persone che si frequentano e di aiutare nelle faccende domestiche.
Anche i dati Istat, e in particolare il rapporto “Uso del tempo e ruoli di genere” del 2012, mostrano la presenza di un gap di genere nella partecipazione dei figli a questo aspetto della vita familiare. Il contributo delle figlie è infatti superiore a quello dei maschi: le ragazze sono più coinvolte (partecipa il 61,7% delle ragazze contro il 36,7% dei ragazzi) e dedicano mediamente più tempo a tali mansioni (un’ora contro 22 minuti).
I genitori tendono quindi ad essere più permissivi con i ragazzi e a lasciare loro maggiore libertà. Gli insegnamenti ad essi rivolti sembrano inoltre indirizzarli al loro futuro ruolo di procacciatori di reddito.
Per le ragazze, invece, l’educazione si basa su regole che portano a rivestire il ruolo della donna attenta alla cura della dimensione familiare.
Si badi bene: l’attenzione rivolta ai processi di socializzazione al genere all’interno della famiglia non è funzionale solamente alla difesa delle bambine, come per Gianini Belotti prima e per Lipperini poi. Anzi, anche i soggetti maschili devono confrontarsi continuamente con l’immagine che la nostra cultura rimanda dell’uomo e con ciò che si ritiene gli sia concesso di fare oppure no.
Il punto è proprio che le visioni stereotipate dei ruoli di genere portano con sé il rischio di tracciare dei percorsi predefiniti, molto difficili da abbandonare, e di non lasciare gli individui liberi di scegliere quali ruoli assumere, quali parti recitare.
Tutti, bambine e bambini, ragazzi e ragazze, dovrebbero essere lasciati liberi di sviluppare il proprio carattere, le proprie inclinazioni, gusti e desideri.
Le differenze tra uomini e donne rimangono e sono inevitabili, la sfida per i genitori, ma non solo, è quella di lasciare la possibilità di esprimere liberamente la propria maschilità e femminilità, educando al dialogo e alla creazione di spazi di comprensione, condivisione e cooperazione tra i due sessi.
È in questo modo che la differenza non separa, ma diventa un punto di incontro.
A cura di Lucia Bainotti