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Covid-19 e terza età: capire per non sbagliare

29/4/2020

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Il Covid-19 ha messo a nudo le criticità del sistema di assistenza socio-sanitaria; ora che lo conosciamo è certo che influirà per anni sulla gestione dei ricoveri per anziani. 
Cos’è successo negli ultimi due mesi è tristemente noto e può essere riassunto in pochissime battute. Per via di un virus mai visto prima, è scoppiata un’emergenza sanitaria che ha raggiunto la maggior parte dei Paesi nel mondo. La massiccia e rapida diffusione del contagio ha portato alla constatazione che si tratta di una pandemia, ovvero di una malattia diffusa a livello globale.  

Dopo alcune settimane, sono iniziate le analisi circa il numero dei soggetti colpiti ed è stato possibile confermare che il virus ha coinvolto maggiormente alcune fasce di età. La terza età è stata quella maggiormente colpita: i morti al di sopra dei 60 anni sono il 95%del totale, quelli al di sopra dei 70 anni l’82%. Si tratta di una conferma del fatto che i più anziani sono anche i soggetti più deboli, sovente perché il morbo si accanisce su di un fisico spesso già provato da altre patologie. 

I dati oggettivi riferiti alle comunità di anziani, in particolar modo alla Residenze Sanitarie Assistenziali per anziani, generalmente note come RSA o case di riposo, hanno dato un’empirica comprova pressoché ovunque. 

Già, non ovunque. Accanto alle fotografie di comunità con bare accatastate, si moltiplicano sulla stampa notizie relative a case di riposo che sono riuscite a passare indenni il contagio da coronavirus; sono la concreta dimostrazione che si potevano evitare, o quantomeno contenere, le stragi delle quali la stampa ci informa puntualmente. A due mesi dall’inizio del problema, circa l’accaduto sono sorti e restano numerosi dubbi, tutti inerenti le cause e la mancanza di soluzioni.Restano in particolare alcuni quesiti. I decessi di questi giorni, nelle case di riposo, sono avvenuti a causa del Covid-19 o sono addebitabili, in tutto o in parte, ad altri fattori? 

Se non è possibile stabilirlo, per quale motivo non si dispone di questo fondamentale dato clinico? Quali esami, clinici o diagnostici, sono stati eseguiti sugli assistiti o, dopo la loro morte, sulla salma per accertare le cause del decesso?   

Sapere che al tempo della pandemia, nel mondo, sono morti molti anziani e che molte case di riposo anno avuto fra i loro assistiti, a fattor comune, una percentuale significativa di decessi non è una spiegazione sufficiente per chiarire quel che è accaduto ad ogni singola persona. La necessità di un’analisi di posizioni individuali diviene ancora più evidente se si considera che si ha notizia non solo di ospizi interi rimasti immuni dal contagio ma anche di ultracentenari curati con successo. 

Per quanto attiene alla pandemia in corso si deve ricordare che lo stato di emergenza è stato dichiarato con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, con ogni conseguenza giuridica del caso. Chiunque vi era tenuto, nelle settimane successive, ha avuto il tempo di agire per i preparativi necessari. Allo stesso modo, gli operatori del mondo sanitario, compresi le realtà dell’assistenza agli anziani, non potevano ignorare lo specifico rischio, che nulla esimeva dall’adoperarsi per prevenirne le conseguenze, in particolare acquistando i presidi medici necessari.  

Il tragico numero di vittime fra gli anziani all’interno delle strutture comunitarie cui erano affidati ha comportato molte polemiche in ordine alla mancata verifica circa la patologia che ha portato al decesso. 

La decisione di non provvedere alla raccolta di campioni da analizzare per verificare la presenza del virus Covid-19 comporterà, per chi l’ha adottata e mantenuta pur di fronte agli innumerevoli decessi, ineludibili considerazioni per la valutazione dei profili di responsabilità penale e civile. Allo stesso modo, una volta appurata la circostanza che persone positive al virus, pertanto infettive, sono state accettate nelle strutture destinate agli anziani, sia quali degenti sia quali operatori sanitari, comporterà una verifica dell’adozione di ogni cautela per impedire il diffondersi del contagio.

Per la struttura ospite non è eludibile la richiesta di fornire i chiarimenti richiesti. Quali presidi medici sono stati adottati? Sono state distribuite mascherine a sufficienza? È stato istruito il personale in servizio sulle peculiarità della malattia? È stato possibile osservare il distanziamento sociale? Quali precauzioni sono state adottate con gli avventori, specie se degli stessi era nota la positività al virus? Ma soprattutto, ove possibile, è stata proposta ai parenti la possibilità di una dimissione con assistenza domiciliare? Di fronte alla peculiarità della patologia era chiaro che si sarebbero dovute osservare scelte non convenzionali, prima fra tutte la rinuncia all’assistenza se non si potevano garantire degenze sicure. 

Per certo non poter certificare la presenza di un’infezione da Covid-19, nemmeno a mezzo di campioni prelevati per un’analisi postuma per i casi in cui si sia proceduto ad una cremazione delle salme, comporterà per gli affidatari una valutazione di carattere ordinario di ogni singolo decesso. Per ogni paziente, infatti, in mancanza di documenti che comprovino una infezione da Covid-19, dovrà svolgersi un attento esame dell’accaduto per appurare che non vi siano accadimenti imputabili ad imprudenza, imperizia o negligenza. 

D’altra parte, di fronte a un decesso si impongono valutazioni minime, da parte della struttura sanitaria prima che da parenti ed amici. Quali erano i sintomi? Sono stati attivati degli specialisti? È stata valutata l’ospedalizzazione? Come è stato curato? È stato contattato il pronto soccorso? Si ritiene infatti che, anche in assenza di disponibilità presso i presidi ospedalieri, l’aver omesso di richiedere la disponibilità al ricovero di ogni singolo paziente, in fondo, non ha messo le strutture ospitanti nella condizione di valutare effettivamente le esigenze sanitarie complessive, ed i decisori politici nella condizione di non apprezzare la concreta situazione di fatto e la dimensione del contagio, per assumere, di conseguenza, le decisioni opportune. 

Nei giorni scorsi si è avanzata la possibilità di modifiche di legge intese ad immaginare “scudi” di vario tipo, per limitare sanzioni e risarcimenti ai casi di dolo o colpa grave. Ebbene, la limitazione di pene e risarcimenti non potrà mai essere assoluta. La ricerca della verità, peraltro, appare doverosa anche alla luce delle severe critiche mosse dai giuristi, fra i quali un esimio ex giudice costituzionale, alla sola possibilità che, nell’indisponibilità di cure per tutti i malati, si sia scelto di curare solo taluni provvedendo per altri a soli trattamenti palliativi. Resta, peraltro, da valutare anche la responsabilità delle realtà di coordinamento dei servizi sanitari a livello centrale.

Ormai da mesi è nota l’esistenza del virus denominato Covid-19, ma tuttora non è incluso nell’elenco delle malattie infettive sottoposte a denuncia obbligatoria e per la sua repressione si è preferito adottare un peculiare sistema di decretazione d’urgenza, con l’adozione di norme speciali senza l’applicazione di quelle esistenti. Per quale motivo non è stata consentita l’applicazione del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265? Basta l’inserimento del Covid-19 nell’elenco delle malattie infettive sottoposte a denuncia obbligatoria con un semplice decreto del Ministero della Sanità: in tal caso verrebbero applicate in automatico le specifiche norme approvate per impedire la diffusione delle malattie infettive con specifici obblighi di denunzia della stessa per consentirne un completo censimento sul territorio nazionale ed il tempestivo allestimento delle misure di contrasto sia di carattere medico che amministrativo.

A cura di Mary Lin Bolis.
© Gente in Movimento - riproduzione riservata

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