Nel 1936 i primi tre prototipi furono pronti e Hitler chiese di cercare la zona ideale per costruire gli stabilimenti dell’azienda, che si chiamerà poi Volkswagen. Venne scelta una zona nei pressi del castello di Wolfsburg e nel 1938 uscì dalle linee di montaggio la prima automobile, che venne inizialmente nominata (il nome venne deciso da Hitler in persona) KDF-Wagen, Kraft Durch Freude Wagen, ovvero “auto: forza attraverso la gioia”. La KDF-Wagen, denominata tecnicamente Type 1, si dimostrò tecnologica e moderna per i tempi, vantando una meccanica semplice e robusta.
Il motore era un boxer quattro cilindri da 985cc e 23.5 cavalli di potenza, con albero a camme centrale e distribuzione ad aste e bilancieri, con un innovativo per l’epoca sistema di valvole in testa. Il raffreddamento era ad aria, con un piccolo radiatore per l’olio, attraverso il quale il circuito di lubrificazione contribuiva a mantenere stabile la temperatura del motore, rendendo molto leggero ed affidabile il piccolo motore, utilizzato fin da subito per applicazioni industriali.
Terminata finalmente la guerra, la Germania e nello specifico l’industria automobilistica tedesca erano in ginocchio, la fabbrica Volkswagen di Wolfsburg era per due terzi distrutta. L’area, per competenza territoriale, era sotto il controllo dell’esercito britannico, i quali pensarono inizialmente di demolire lo stabilimento; tuttavia, all’ultimo momento gli inglesi cambiarono idea e affidarono l’azienda all’ingegnere Heinz Nordoff. Con pochi operai e materiali di fortuna, la produzione di Type 1 riprese con una centinaia di esemplari all’anno.
Sul finire degli anni ‘40 la Volkswagen cominciò a produrre un singolare veicolo utilitario con la meccanica del Maggiolino, il cui vano di carico era posizionato davanti al posto di guida sotto al quale era sistemato il motore. In un paio di anni questo rudimentale veicolo venne affinato, il posto di guida passò nella parte anteriore mentre il gruppo propulsore sotto il cassone; negli anni a venire la casa tedesca aprì filiali in Brasile, negli Stati Uniti, in Messico ed in Sud Africa, ed in ogni mercato questo piccolo autocarro riscosse enorme successo.
A partire dall’inizio degli anni sessanta, il Bully venne prodotto anche in versione camper, fu il primo veicolo prodotto in serie destinato a clienti “plain air”. Il Bully divenne in poco tempo un cult delle avventure on the road, motorizzando oltre che i ragazzi del ’68, generazioni di camperisti.
Il protagonista della nostra storia uscì dagli stabilimenti di Wolfsburg nel febbraio del 1964 come scocca vetrata destinata ad allestitori esterni, una delle numerose versioni che i concessionari Volkwagen potevano commerciare. Destinato ad essere allestito come camper, il suo assemblaggio era stato terminato nello stabilimento Westfalia, azienda che ancora oggi allestisce veicoli di questo tipo su meccanica Volkwagen e fu consegnato e spedito alla filiale di Parigi della casa tedesca.
Il Bully era stato ordinato da un commerciante di automobili italiano che operava nella capitale francese - siamo in un epoca che i camper non sono diffusi come ai giorni nostri - ed il commerciante aveva pensato di acquistarne uno per farsi le vacanze in Italia e quindi rivenderlo. Venne immatricolato a luglio del 1964 ed il suo battesimo della strada avvenne con un bel viaggio a Firenze, ma al ritorno il proprietario, entusiasta dell’acquisto, decise di tenersi per sè il nuovo giocattolo.
Negli anni a seguire vendette molti veicoli simili, ma con il Bully viaggiò con la famiglia per tutta l’Europa ed anche quando, per sopragiunti limiti di età, lo mandò in pensione non ebbe il coraggio di venderlo, parcheggiandolo nel garage della sua casa in Valle d’Aosta.
È proprio a Challant Saint Anselme, ai piedi del Monte Rosa, che l’attuale proprietario lo trovò parcheggiato coperto da un consistente strato di polvere.
Oggi il Bully ha iniziato una nuova vita, restando però in linea con la sua mission, ovvero il fedele compagno di viaggio di chi siede al posto di guida per vivere l’avventura on the road.
A cura di Roberto Gianusso