Il Regno Unito è dunque il primo Paese nella storia ad aver lasciato l’Unione europea. Il 31 gennaio 2020, a oltre 3 anni e mezzo dal referendum che nel giugno 2016 aveva sancito la volontà popolare (con il 51,8% di favorevoli) di staccarsi dall’Ue, la Union Jack, bandiera simbolo dell’ex impero britannico, è stata formalmente ammainata dalle sedi istituzionali europee. Dopo il voto di Londra e di Bruxelles, infatti, è scattata l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che prevede l’uscita di un Paese dall’Unione. Un distacco avvenuto dopo 47 anni di alterne vicende (il Regno Unito aderì nel 1973 insieme a Irlanda e Danimarca), e che comunque hanno caratterizzato la storia dell’Europa.
Nel pomeriggio del 29 gennaio, quando il Parlamento Ue a Bruxelles ha approvato a larga maggioranza l’accordo di recesso, con 621 voti favorevoli, 49 contrari e 13 astenuti, io ero tra i banchi di quella Assemblea plenaria. Testimone di momenti di vera commozione, subito dopo il voto, tra i parlamentari dei partiti europeisti che intonavano il Valzer delle candele come inno alla fratellanza, e una minoranza di “Brexiter” guidati da Nigel Farage che lasciavano l’Emiciclo esultando per l’obiettivo raggiunto.
Il presidente dell’Eurocamera, David Sassoli, ha detto che “non sarà un addio, ma un arrivederci”. E personalmente ho condiviso questo saluto. Tant’è, dalla mezzanotte del 31 gennaio, ora di Bruxelles, le 23 ora di Greenwich, il Regno Unito è giuridicamente diventato un Paese terzo.
E, tra le mille cose da negoziare, d’ora in poi vi saranno anche le regole sugli scambi commerciali e le misure di sicurezza sui beni alimentari, che sono uno dei punti qualificanti delle politiche dell’Unione. Cardini anche del mio programma di lavoro, come rappresentante dell’Italia, nelle commissioni Agricoltura e Bilanci del Parlamento europeo.
Dall’1° febbraio i 27 Paesi restanti hanno dato il via ai negoziati tecnici che, sulla carta, andranno completati in 11 mesi, entro il 31 dicembre 2020, per evitare lo spauracchio di un “No Deal” sul piano commerciale. Ma proprio questi negoziati diventano ora una scommessa e una grande incognita.
L’Unione ci ha abituato a decenni di progresso e passi in avanti fatti insieme; mentre oggi, purtroppo, la ferita della Brexit rappresenta una delle pagine più buie. Per questo dobbiamo guardare subito alla nuova fase che ci attende, certamente la più difficile, per definire i termini della separazione.
Fino al 31 dicembre 2020 nulla cambierà dal punto di vista delle regole tra le due sponde della Manica, per gli agricoltori e per l’intero sistema agroalimentare italiano ed europeo. Fino a quel momento le relazioni tra il Regno Unito e il resto dell’Europa non registreranno nuovi dazi, né nuovi contingenti. Nessun impatto anche sul riconoscimento reciproco delle rispettive eccellenze europee come Dop e Igp. L’intero comparto, e in particolare i grandi brand italiani che vengono esportati in quantità e qualità sul mercato britannico, dal Prosecco all’ortofrutta, avranno un anno per sviluppare le contromisure necessarie.
Certo, in questo lasso di tempo non ci saranno difficoltà nella circolazione delle merci, ma gli 11 mesi a disposizione per negoziare un accordo con regole condivise appaiono oggettivamente molto pochi e non è escluso che nel frattempo si riesca a ottenere una proroga di questo periodo transitorio. Anche perché senza un accordo sulle future relazioni commerciali, dall’1 gennaio 2021 sarebbero ripristinati i controlli doganali e l’applicazione di dazi previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio sui prodotti agroalimentari. Di fatto, ci troveremmo di fronte a una ‘Hard Brexit’ differita nel tempo che aumenterebbe l’incertezza.
Michel Barnier, capo negoziatore Ue per la Brexit, e la sua equipe di 60 esperti in tutte le politiche comuni-
tarie, sta lavorando senza tregua alla migliore ‘separazione’ possibile tra Londra e Bruxelles. Del resto, lo
stesso Barnier, ex ministro dell’Agricoltura francese, ha detto chiaramente che sta lavorando anche “per minimizzare l’impatto della Brexit sulla Politica agricola comune. La posta in gioco è elevata.
Londra importa dall’Europa circa 40 miliardi di euro l’anno di prodotti agroalimentari, di cui 3,4 miliardi sono italiani. E di questi, il 30% è costituito da alimenti a Indicazione geografica protetta. Con un trend in continua crescita. Attualmente il
Regno Unito rappresenta il quarto mercato di sbocco mondiale di ‘food&beverage’ italiano, dopo Germania, Statati Uniti e Francia.
Il Regno Unito, dal canto suo, produce poco più del 50% dei prodotti alimentari che consuma. E una Brexit ‘No Deal’ si stima porterebbe a un aumento dei prezzi di quei prodotti anche del 20%, costringendo il governo di Londra a fronteggiare una profonda inflazione. Tra i prodotti più importati dal Regno Unito vi sono frutta, ortaggi, carne, cereali, uova, olio, zucchero ma anche vino, che l’Italia esporta su quel mercato per circa un miliardo l’anno.
A questo punto, è chiaro che ci aspetta un periodo con sfide molto importanti per l’agricoltura e per tutto il comparto. L’unica sicurezza è che dopo la Brexit non ci sarà il vuoto, ma un’Europa sempre più sostenibile, pronta a difendere gli interessi di tutti gli europei, in particolare di un settore agroalimentare che nella Ue dà lavoro a 44 milioni di cittadini.
A cura dell’On. Paolo De Castro.