Il lockdown imposto quest’anno per legge dal Governo italiano, primo in Occidente, per contenere la diffusione della pandemia ha confermato del resto l’elevato peso specifico e il valore di tutta la catena agroalimentare, che con produttori, aziende di trasformazione, della distribuzione e operatori dell’indotto, anche nell’emergenza ha continuato a rifornire i punti vendita di cibo. Alimenti oltretutto sicuri, nel senso della “food security”, che in condizioni normali diamo talvolta per scontata. Certo, all’inizio di questo dramma che nessuno poteva prevedere, anche i prodotti alimentari, come i medicinali e i presidi sanitari, hanno corso il rischio di essere bloccati nei mercati e nella libera circolazione alle frontiere. Ma dopo le prime esitazioni dettate dalla paura e dall’incertezza su come procedere, fortunatamente il pericolo è rientrato.
E questo grazie alla solidità del nostro sistema agroalimentare, che quotidianamente assicura le forniture e la presenza di prodotti sugli scaffali, ma anche all’intervento dell’Unione europea che di fronte alle prime avvisaglie di blocchi alle frontiere ha attivato tutte le misure necessarie per fluidificare i trasporti tra Paesi membri, evitando ostacoli e ritardi nelle consegne. E qui, per inciso, voglio ricordare cosa potrebbe succedere in Gran Bretagna con la Brexit, in caso di un "No deal" che imporrebbe controlli alle dogane con l’Ue, visto che il Regno Unito ha solo il 50% di autosufficienza alimentare.
D’altra parte, l’attenzione dedicata dall’Unione al Food&beverage è supportata dal fatto che il settore incide per il 15% sul fatturato dell’industria manifatturiera europea, per il 12% sul valore aggiunto e il 16% sull’occupazione. Non solo, l’industria alimentare dell’Ue-27 è la prima a livello mondiale con un fatturato che sfiora i 1.100 miliardi di euro. Un livello di gran lunga superiore a quello degli Stati Uniti, che seguono al secondo posto con un fatturato di settore pari a meno di 800 miliardi.
In ambito Ue, l’industria alimentare italiana si colloca al terzo posto dopo Francia e Germania. E al di là dei numeri, con un turnover di oltre 130 miliardi di euro, che la pongono al secondo posto dopo la meccanica, quella alimentare ha dimostrato di reggere sia alla crisi economica mondiale del 2008, che ora all’emergenza Covid, evitando un’emorragia di posti di lavoro e contenendo il calo dell’export.
Come evidenzia una ricerca appena pubblicata di Nomisma, commissionata da Centromarca e Ibc, l’alimentare in Italia è fortemente integrato con l’agricoltura e costituisce il principale presidio in molte aree svantaggiate del nostro Paese, dal Mezzogiorno alle aree montane, dove i livelli di occupazione e di valore aggiunto sono doppi o addirittura tripli rispetto alla media del territorio nazionale.
Da qui la necessità di monitorare in modo costante l’evoluzione di questo settore, mai di moda e passeggero, non solo per i fenomeni di delocalizzazione di siti produttivi, ma per le cessioni di marchi del Made in Italy a soggetti stranieri che negli ultimi anni sono state registrate con sempre maggiore frequenza. Cessioni e vendite di rami d’azienda che finiscono per frenare la crescita dimensionale delle imprese e quindi la loro capacità di competere sui mercati internazionali e fronteggiare una concorrenza estera sempre più agguerrita.
La ricerca di Nomisma mette in luce che il Covid-19 non ha provocato solo una ‘frattura’ tra il prima e il dopo pandemia, ma ha rafforzato ad esempio il ricorso agli acquisti di prodotti online, rafforzando inoltre la sensibilità dei consumatori verso prodotti in grado di esprimere una sensibilità sociale, e non più solamente rivolta alla tutela dell’ambiente.
L’indagine evidenzia però anche che 7 aziende su 10 ritengono come nei prossimi anni le vendite di prodotti alimentari in Italia continueranno a risentire degli effetti negativi legati alla pandemia. E oltre alla crisi economica che inciderà sui redditi degli italiani, per il canale Horeca (Hotel, restaurant e catering), il più colpito dal lockdown, i tempi di recupero saranno più lunghi del previsto, anche per il forte calo dell’afflusso di turisti stranieri che porterà a una sensibile riduzione dei ristoranti in attività.
Il sistema agroalimentare italiano, fatto da imprenditori seri e capaci, riuscirà anche questa volta a superare le sfide più difficili.
E comunque andrà posta maggiore attenzione a quanto viene deciso a livello europeo, dove vengono definite strategie e strumenti che possono condizionare in modo rilevante lo sviluppo del settore agroalimentare. Dalla nuova Pac con il Green Deal, alla politica commerciale internazionale, alla Brexit, sono diversi i dossier in discussione in questa fase a Bruxelles e dall’esito dei quali potranno dipendere le sorti, o almeno lo sviluppo, di molte imprese italiane.
Per questo non bisogna mai abbassare la guardia, ma far valere la nostra presenza nelle istituzioni Ue in termini costruttivi, perché gli interessi della filiera agroalimentare italiana non sempre collimano con quelli dei francesi o dei tedeschi, anzi. E comunque dalle politiche europee possiamo trarre importanti leve di sviluppo per le nostre imprese. La pandemia da Covid-19 ci ha dimostrato ancora di più che senza l’Unione europea è difficile pensare a uno sviluppo duraturo del nostro sistema agroalimentare.
A cura dell’On. Paolo De Castro.