Sì, perché coach Peterson non è stato solo un grande allenatore, ma anche e soprattutto uomo TV, comunicatore, giornalista e telecronista sportivo.
Dan Peterson è noto a tutti come “il coach”, anche ora che ha smesso da tempo di allenare. Persino sua moglie Laura lo chiama così, come ha confidato lui stesso in una recente intervista.
Il suo accento inglese, mai perso nonostante abbia vissuto per 43 anni in Italia, resta il marchio di fabbrica inconfondibile di un personaggio poliedrico, conosciuto e amato da tutti, non soltanto dagli appassionati della palla a spicchi.
Ad oggi possiamo benissimo dire che Dan Peterson ha cambiato in maniera radicale il mondo della pallacanestro, della comunicazione e il modo di raccontare le partite.
Al suo arrivo in Italia, capelli lunghi, chitarra al collo, pantaloni a zampa di elefante, questo Carneade pareva uno di passaggio.
Venuto da oltre oceano a portare la buona novella dal continente dove il basket l’hanno inventato, nessuno avrebbe pensato ad un impatto così devastante.
Ma per capire l’essenza di una figura di tale spessore occorre partire dal principio. Dalla città di Evanston, precisamente, dove Daniel Lowell Peterson nacque il 9 gennaio 1936.
“Evanston confina con Chicago, ma occhio alla differenza: Chicago è la città più brutta del mondo, Evanston la più bella”, ama ripetere coach Peterson.
Dopo le esperienze da allenatore con le Università di Michigan State, USNA e Delaware negli anni Sessanta, il Coach approda sulla panchina della nazionale cilena, portandola al quarto posto ai giochi del Sud America (miglior piazzamento di sempre per questa nazione).
Nel 1973 ecco la svolta: coach Peterson sbarca in Italia. A puntare decisamente su di lui è l’allora patron della Virtus Bologna, l’avv. Porelli.
Dan Peterson stupisce tutti con un basket che ha nella semplicità il suo punto di forza: due soli schemi offensivi, difesa a uomo e contropiede. Questi gli ingredienti vincenti. Sì, perché Dan vince. Subito. Nel ’74 arriva la Coppa Italia, mentre l’anno successivo è già scudetto.
Tuttavia l’esperienza più importante della carriera di Dan sarà sulla panchina di Milano. La squadra delle “scarpette rosse”, infatti, fiuta fin da subito le grandi capacità del Coach e mette la squadra ai suoi ordini a partire dalla stagione 1978.
Con Milano è amore a prima vista. Si apre un’epopea di successi ancora oggi nel cuore dei tifosi milanesi. Dal ’78 all’87, periodo di permanenza di Peterson sulla panchina lombarda, Milano vince quattro scudetti, due Coppe Italia una Coppa Korac e una Coppa dei Campioni.
Nell’87, un po’ a sorpresa, si ritira a soli 51 anni. Decisione di cui ha sempre detto di essersi pentito.
Il palmares del Coach basterebbe da solo a porlo tra i grandi dell’olimpo cestistico.
Però è proprio a ridosso degli anni Novanta, dopo il suo ritiro, che comincia la vera rivoluzione mediatica griffata Dan Peterson.
Forse la parte più incisiva della sua carriera, già stracolma di successi, dal momento che gli permette di raggiungere tutti, proprio tutti: famiglie, bambini, adulti, non necessariamente appassionati di basket.
Le tv italiane gli affidano l’arduo compito di portare sugli schermi della nostra penisola il basket americano della NBA, il campionato professionistico più spettacolare del mondo.
E Dan ci riesce, in un modo tutto suo.
Forse proprio quell’Italiano pervaso da uno spiccato accento inglese costituisce il trait d’union tra vecchio e nuovo continente e permette di rendere accessibile ai più uno sport fino ad allora poco conosciuto e pubblicizzato, nonché prodotto mediatico difficile da diffondere.
Se poi al commento tecnico di un esperto come Dan Peterson, espresso con un linguaggio tutto suo, aggiungiamo le famosissime massime del Coach, la miscela diventa esplosiva, il successo assicurato.
Indimenticabile il celebre “mamma butta la pasta” nei momenti finali di una partita ormai in archivio, oppure la frase “mai sanguinare davanti agli squali!”, o ancora quel “tu, playmaker, ti devi fermare sulla riga di tiro libero e fare palleggio arresto e tiro in contropiede!”, proferito simpaticamente (o forse no) all’indirizzo di un giocatore in campo.
Il tutto con quell’okay messo quasi abusivamente alla fine delle frasi più concitate.
Il grande successo televisivo di Dan Peterson non si ferma qui.
Le campagne pubblicitarie, in particolare quella del tè Lipton, hanno contribuito a rendere la sua figura ancora più famigliare e simpatica tra le mura domestiche.
Dopo il basket, coach Peterson ha prestato la sua dialettica di telecronista anche ad altri sport americani, uno su tutti il wrestling, diffusosi in Italia anche grazie a lui (tanto per cambiare!).
La sua esperienza da allenatore e conoscitore dei processi interni di squadre e società sportive hanno fatto sì che Dan fosse contattato anche da importanti aziende italiane per moltissime dissertazioni sui temi di leadership e team building.
Nel 2011, a 75 anni, è stato richiamato per una breve parentesi da traghettatore sulla panchina di Milano. La sua Milano, società dove collabora ancora oggi. Un déjà-vu che ha commosso Dan, così come tutti i nostalgici tifosi lombardi.
Coach Peterson arriva al traguardo degli 80 anni, festeggiati (manco a dirlo) a preparare una partita di basket. È stato scelto infatti per guidare una delle due selezioni partecipanti all’All Star Game 2016 italiano, contro Valerio Bianchini, suo storico rivale negli anni d’oro passati ad allenare.
Progetti per il futuro di Dan? Il coach non esclude nulla, nemmeno un ritorno in panchina di fronte ad un progetto coinvolgente.
In attesa delle sue prossime ed esaltanti sfide, ognuno di noi non può che essere riconoscente ad una persona di tale portata.
Se oggi la pallacanestro, soprattutto quella americana, è entrata massivamente nelle nostre case e sui nostri schermi, in maniera originale e stravagante, il merito è proprio di questo piccolo grande uomo, venuto da Evanston per cambiare la cultura sportiva di milioni di persone.
Un personaggio, direbbe lui, “fe-no-me-na-le”.
A cura di Marco Dalmasso