Le cronache recenti, del resto, confermano che si tratta, purtroppo, di un fenomeno di estrema attualità, e del tutto singolare per le intrinseche particolarità che lo caratterizzano.
A tal riguardo basti pensare che, nonostante il carattere evocativo ed originario del concetto di famiglia, l'ordinamento (soprattutto quello penale) non ne fornisce alcuna definizione. La nostra Costituzione fa indubbio riferimento alla famiglia "fondata sul matrimonio" (art. 29), ma questa rappresenta solo una delle molte realtà e concezioni di famiglia che la nostra società conosce.
E proprio perché si tratta di una nozione "parziale" è necessariamente limitante (indipendentemente dalle convinzioni politico-religiose di ciascuno), soprattutto se collocata in una dimensione di "tutela" dei soggetti deboli che, nell'ambito della propria personale esperienza di famiglia, subiscono violenze.
Un così evidente (e pericoloso) vuoto normativo è stato colmato dall'attività interpretativa e di aggiornamento della magistratura penale, che, a varie riprese (non sempre seguendo un percorso omogeneo e coerente), è giunta a focalizzare l'attenzione sul concetto di stabile convivenza che lega due o più persone unite da un rapporto fondato sull'affidamento e sulla solidarietà reciproca.
Si tratta, a mio vedere, di un approdo interpretativo importante, che giunge al cuore del problema delle violenze intrafamiliari, incentrando l'attenzione sul dato che più di altri le rende particolarmente insidiose e terribilmente frustranti: si tratta di violenze che colpiscono quell'ambito di vita tanto più sicuro e protetto quanto più dovrebbe fondarsi sulla fiducia e sulla solidarietà di chi ne fa parte.
Ed è proprio partendo da queste considerazioni che si coglie la particolare vulnerabilità della vittima, sovente incapace di ribellarsi nei confronti di chi ha tradito questi legami così profondi e fondamentali, trasformandosi in persona violenta e pericolosa.
Anche la stessa nozione di violenza è stata interessata da un importante "adeguamento" alla realtà contemporanea, che l'ha resa maggiormente coerente con le finalità di tutela affidate, in quest'ambito, al diritto penale.
A tal riguardo, è particolarmente utile evidenziare come la nozione di violenza che, a tal fine, è stata elaborata è ben più ampia di quella che si risolve sul piano "meramente" fisico, ricomprendendo anche le manifestazioni disprezzo e di offesa alla dignità dell'individuo, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali.
In quest'ottica, le sentenze di condanna sono giunte a prendere in considerazione anche quei fatti lesivi del dell'integrità psichica della vittima, che, pur non costituendo reato se considerati singolarmente, a motivo della loro reiterazione sono tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione familiare. Ad esempio, sono stati ricondotti a questa nozione "ampia" di violenza anche le ipotesi di "annientamento" della personalità, perpetrata in modo sistematico, come nel caso del costante utilizzo di espressioni infamanti ed umilianti, oppure nel caso in cui si faccia pesare alla vittima di non percepire un reddito autonomo, così da instaurare un regime di vita logorante, volto al continuo discredito del soggetto debole.
Si tratta, indubbiamente, di un ulteriore passo in avanti e di modernizzazione nell'applicazione di ipotesi di reato che, per l'epoca storica in cui vennero concepite, potrebbero altrimenti risultare desuete o, comunque, difficilmente adattabili alla società contemporanea. Il diritto vivente ha in tal modo compiuto un salto di qualità nel contrasto di un fenomeno che, ciononostante, non potrà essere sradicato né dagli interventi riformatori del legislatore (sovente animato più da intenti mediatici che non da un'effettiva convinzione nella possibilità d'incidere sulla realtà che si accinge a disciplinare), né dalle sentenze, pur pregevoli, che hanno offerto tutela a chi ne è rimasto vittima.
Pur con la sicura consapevolezza che un così importante obbiettivo deve essere anzitutto perseguito sul terreno culturale e di rispetto per il prossimo, oltre che della formazione e dello sviluppo di un imprescindibile senso civico, l'evoluzione interpretativa che ha interessato questa materia può essere estremamente utile per consentire al diritto penale di svolgere un ruolo credile (pur se non centrale) di supporto alla prevenzione della violenza domestica.
Al riguardo, infatti, pur se può convenirsi sul fatto che chi realizza simili reati ben difficilmente si lascia orientare nei propri comportamenti da indicazioni razionali, legate al rischio di incorrere nelle maglie della giustizia, la prevenzione che può ambire a svolgere il diritto penale è piuttosto affidata alla fiducia che la vittima può riporre in un sistema giudiziario capace di comprendere le ragioni di tutela dalla stessa rappresentate. In tal modo, pertanto, si può aspirare a ridurre la "cifra oscura" cui prima ho fatto cenno e, contestualmente e per le stesse ragioni, ad offrire alla vittima stessa la possibilità di pensare ad un cambiamento rispetto ad una realtà che, altrimenti potrebbe presentarsi ai suoi occhi senza ragionevoli alternative.
Ma quest'obbiettivo richiede uno sforzo ed un coinvolgimento di tutti gli attori che s'interfacciano con le vittime, a cominciare, certo, dagli operatori della giustizia, ma anche di chiunque che, per professione (penso anzitutto agli psicologi) o per caso (il confidente) vengono a trovarsi nelle concrete possibilità di suggerire la strada della denuncia, piuttosto che della tacita rassegnazione.
A cura di Maurizio Riverditi