L’impianto originario del Codice della Strada stabiliva che al venir meno dei requisiti morali dovesse conseguire un’automatica revoca delle patenti di guida. Con il tempo questa regola ha perso la sua tassatività ad opera della Corte Costituzionale che, per i casi man mano sottoposti alla sua attenzione, ha rimosso l’utilizzo della sanzione automatica prevedendo che il Prefetto, previa valutazione del singolo caso, abbia la facoltà di provvedere e non un obbligo.
Le iniziali aperture hanno riguardato i casi di soggetti condannati per reati di spaccio e traffico di sostanze stupefacenti nonché i soggetti sottoposti a misura di sicurezza personale; il caso da ultimo valutato dalla Consulta con la sentenza n.99 del 27 maggio 2020 (pubblicata in Gazz. Uff. del 3.6.2020) riguarda il caso dei soggetti sottoposti a misure di prevenzione.
La sentenza, con un articolato chiaro e conciso, apre tuttavia a nuove questioni che saranno certamente oggetto delle prossime pronunzie. Innanzitutto, rimette in discussione la competenza in tema di impugnazioni del provvedimento del Prefetto.
Pur riconoscendo che, per ormai consolidata giurisprudenza, la competenza a decidere in merito all’impugnazione dei provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 120 del Codice della Strada è del Giudice Ordinario, la Consulta ammette la questione di costituzionalità sollevata da un Tribunale Amministrativo Regionale ed accetta una tesi espressamente definita “non implausibile, ancorché opinabile”, riconoscendo che la posizione soggettiva incisa dal provvedimento di revoca potrebbe trasformare in interesse legittimo la revoca discrezionale da disporsi a cura del Prefetto.
Di non minore importanza risulteranno, tuttavia, le argomentazioni sviluppate dalla Consulta in ordine agli effetti che la revoca può avere in merito all’utilizzo della patente di guida per lo svolgimento di attività lavorativa. Il Giudice delle leggi considera che la diversità delle situazioni che hanno originato le violazioni di legge non può comportare l’applicazione di sanzioni fisse, senza tener conto peraltro degli effetti che le coatte sanzioni possono avere sulla vita dei soggetti sanzionati. La strada indicata è quella delle valutazioni di ogni singolo caso allo scopo di adottare sanzioni proporzioniate alle condotte ed agli effetti del trasgressore.
Proprio in un ragionamento di questo tipo la Corte Costituzionale mostra una raffinata sensibilità all’attività lavorativa e su questa base annulla l’applicazione di sanzioni accessorie con automatismi che possono comportare, infine, conseguenze troppo gravose.
La strada appare ora meno ripida perché si possano svolgere simili considerazioni in tutte le ipotesi in cui, nel codice della strada, vi siano delle sanzioni fisse e non proporzionate alla violazione ed all’affettività delle conseguenze per il trasgressore.
La sentenza in esame lascia ben sperare che si possano in futuro affrontare gli altri casi in cui, in seguito ad una violazione, viene disposta una sanzione in modo automatico, senza alcuna possibilità di graduazione o valutazione degli effetti in rapporto al caso in esame.
Sulla base di questa innovativa attenzione alle attività lavorative potranno essere calibrate le attività difensive, che anche per le sanzioni amministrative dovrebbero consentire una valutazione dei vari interessi coinvolti, al fine di evitare che le sanzioni non siano troppo gravose, specie se si tratta di sanzioni, quali revoca della patente e confisca del veicolo, che finiscono con l’essere in concreto ben più afflittive della sanzione principale cui sono affiancate.
Certamente la materia potrebbe essere oggetto di apposite previsioni legislative che, ad esempio, in luogo della confisca consentano quale sanzione accessoria il temporaneo divieto di utilizzo degli autoveicoli al di fuori delle attività lavorative: sul punto la palla passa dalla concreta applicazione dei giudici alla sensibilità del legislatore.
A cura di Davide Calvi.