Il fulcro dell’incentivo è stato la cessione del credito; in assenza il Superbonus110% sarebbe stato una “super-percentuale” di detrazione con un effetto piuttosto limitato rispetto ai 114 miliardi di investimenti realizzati a causa dell’incapienza fiscale per la maggior parte dei contribuenti.
Al contrario, grazie alla cessione del credito, anche un soggetto incapiente ha potuto realizzare le opere grazie alla trasferibilità del credito verso terzi, compresi gli istituti bancari.
Il problema è sorto quando la volontà politica di frenare il Superbonus110% non si è focalizzata sulla percentuale dei soggetti che potevano usufruire del 110% ovvero sugli interventi ammissibili, in generale sull’art. 119 del Dl Rilancio che disciplinava la misura, bensì sull’art. 121 relativo alla cessione del credito.
In primo luogo, è opportuno puntualizzare che la cessione del credito non ha riguardato solamente il Superbonus ma la quasi totalità dei bonus edilizi. A ciò si aggiunga il fatto che l’art. 121 ha subito oltre a venti modifiche in poco più di tre anni, con ritocchi perlopiù inefficaci, che hanno creato ulteriore confusione agli operatori.
La versione originaria dell’art. 121 consentiva la piena e illimitata circolazione dei crediti. Di fronte all’accusa di essere di fronte alla “più grande truffa della storia della Repubblica” il Governo Draghi aveva limitato la cessione libera a un solo trasferimento “jolly”, dopodiché il credito poteva circolare esclusivamente all’interno del canale bancario.
L’effetto è stato quello di bloccare il meccanismo con una crescita significativa dei crediti incagliati. Prima la monetizzazione avveniva con ragionevole facilità e a tassi di sconto contenuti, in quanto era semplice trovare una controparte disponibile ad acquistare il credito; con le misure restrittive, le banche, a partire da quelle più piccole, hanno ridotto fino a sospendere gli acquisti avendo saturato i loro plafond disponibili.
Le misure adottate, invece che colpire i truffatori, hanno limitato l’operato dei soggetti onesti. È di comune evidenza che le truffe sorgono sul cantiere (si pensi a quelli realizzati su fabbricati inesistenti o mai avviati), non certo dalla circolazione di un credito “buono”. In questo modo, all’opposto, si sono manifestati effetti avversi per lo stesso Erario, oltre che logicamente per le imprese e le famiglie: i crediti sono stati oggetto di una profonda svalutazione in quanto la mancanza di liquidità delle imprese ha costretto queste a cederli con tassi di sconto elevati. Il costo dello Stato è il medesimo perché il cessionario recupererà sempre cento dalle proprie imposte, mentre il denaro che affluisce sull’economia sarà inferiore frenando la spinta propulsiva della manovra. Per assurdo, le condizioni per la formazione di un buco di bilancio sono state create proprio dalle norme che lo avrebbero voluto evitare.
Pur vero che sulla perdita di valore dei crediti ha inciso anche l’aumento dei tassi di interesse, è indubbio che senza le modifiche apportate con i vari decreti-legge il valore attuale dei crediti sarebbe stato più resiliente e vi sarebbero stati molti meno crediti incagliati o inutilizzabili. Su quest’ultimo aspetto è poi dubbia la valutazione adottata nel bilancio statale di considerare pagabili i crediti, laddove pagabili non sono.
Si è creato, peraltro, un triste precedente dove la normativa è stata modificata in corso d’opera penalizzando soggetti che avevano pianificato le opere sulla base di aspettative legittime, con un effetto negativo sulla fiducia verso le istituzioni statali. La cessione del credito è sempre stata un’opzione e non un diritto acquisito; tuttavia, le modifiche restrittive alla circolazione hanno trasformato, per molti soggetti, un’opzione probabile in un miraggio molto costoso.
In via prospettica si può constatare come lo strumento della cessione del credito, laddove ha funzionato, abbia sostenuto la domanda anche per lavori ordinari. Tutto ciò è stato possibile perché un cittadino poteva utilizzare il denaro incassato dalla cessione del credito per realizzare un ulteriore intervento.
La “moneta fiscale” ruota intorno al concetto che i crediti maturati garantiscono al contribuente di ottenere uno sconto fiscale che potrà usare negli anni successivi per pagare le imposte. Contemporaneamente le imprese e famiglie che hanno bisogno immediatamente di monetizzare, oppure non sono nelle condizioni di detrarre, possono cedere i crediti facendo circolare sin da subito più liquidità nell’economia, mentre l’esborso dello Stato avviene negli anni successivi.
Questo processo sarebbe applicabile anche ad altri settori oltre all’edilizia, si pensi a Industria 4.0 e 5.0, e permetterebbe di realizzare investimenti che non sarebbe possibile attuare con il normale meccanismo della detrazione diretta. Infatti, oltre all’incapienza fiscale, occorre considerare la disponibilità di risorse finanziarie. In assenza di trasferibilità il contribuente deve anticipare il costo totale dell’investimento per avere un ritorno economico spalmato su tempi medio-lunghi.
Siffatte valutazioni devono indurre il legislatore a comprendere della necessità di finanziare gli investimenti, anche alla luce della direttiva sulle case green, la cui implementazione è strettamente correlata agli incentivi fiscali. In assenza del ripristino dello sconto in fattura, peraltro riconosciuto dalla stessa direttiva, sarà “arduo” raggiungere gli ambiziosi obiettivi europei.